di Giorgio Belardinelli
Subito dopo l’elezione si è presentato come il nuovo Papa che i cardinali sono andati a prendere «dalla fine del mondo». E tutti abbiamo pensato subito a un terra lontana. Ma non è che ci siamo sbagliati? Non è che in quella auto-definizione c’è dentro qualcosa di più? Un riferimento – magari anche inconsapevole – a qualcosa che ha a più a che fare con un tempo da cogliere che con uno spazio da cercare?
È già da un po’ che ho in mente questa idea, ma le immagini che abbiamo visto e le parole che abbiamo ascoltato ieri da Lampedusa me l’hanno ulteriormente rafforzata. Che cosa ci affascina così tanto in Papa Francesco? In fondo non dice parole nuove, ripete semplicemente la strada che il Vangelo indica da sempre. Ma ciò che lui riesce a fare in una maniera straordinaria è comunicare l’urgenza che quegli stessi inviti – già ascoltati mille volte – portano con sé. È come se stesse togliendo un velo di fronte a qualcosa che prima non riuscivamo a vedere con chiarezza.
Certo, ci si può anche fermare all’emozione di fronte al Successore di Pietro che arriva a Lampedusa con la barca. Oppure ci si può schierare con facilità dalla parte di «quelli che l’avevano sempre detto» che bisognava fare qualcosa di più per gli immigrati. Eppure – se siamo sinceri fino in fondo – chi di noi ieri non ha avvertito un brivido dietro alla schiena quando citando i barconi affondati ci ha chiesto se avevamo pianto per fatti come questo? La verità è che ci voleva un uomo venuto «dalla fine del mondo» per togliere la questione della tratta delle persone sulle carrette del mare dall’universo delle polemiche di carta e riportarlo nella loro dimensione più autentica: quella – appunto – delle lacrime.
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