di Alessandro D’Avenia
Per sentire il polso di una civiltà bisogna tastare come affronta la morte e prova a redimersene.
I Greci antichi provarono a spezzare il pungiglione alla morte trasformando la vita di un uomo in ricordo: la sua tomba o il suo essere narrato.
Aristocraticamente la morte era sopportabile e vinta solo per pochi eletti, quelli capaci di morire eroicamente e meritarsi una pietra più dura della pietrificazione della morte. L’alternativa era entrare nell’oblio assoluto. Non essendoci nulla di buono dopo la morte, l’unica forma di vita-dopo-morte era essere posti a fondamento della società, diventandone mito. Ma lo stesso Achille morto si dichiarerà sconfitto nel faccia a faccia con Ulisse in visita nell’aldilà: preferirebbe essere l’ultimo dei servi da vivo che il primo nel regno delle ombre. Lui che nel poema della consacrazione eroica, aveva scelto in dono dagli dei una vita breve ma gloriosa, piuttosto che lunga ma nascosta. Anche il mito vacilla sul ponte che unisce aldiqua e aldilà. Iliade e Odisseasono costruite sul ricordo di pochi grandi, che però sottovoce ammettono il fallimento, almeno per il morto stesso, di quella soluzione nobile e aristocratica.
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