Malala al Liceo, Malala, una nostra compagna


Malala Yousafzai è una nostra compagna: lo ha deliberato il Comitato degli Studenti del Liceo di Ceccano aderendo all’appello proveniente dalle altre scuole che formano la rete del Comenius. Malala è diventata il simbolo della libertà di educazione: 14 anni, ha difeso le sue compagne in Pakistan dalle minacce dei talebani che non vogliono che vadano a scuola. Le hanno sparato mentre tornava a casa da scuola. Uno dei due proiettili sparati ieri dai talebani pachistani, entrato dalla testa, si era conficcato nel collo, è stato estratto oggi al termine di una delicata operazione. Commentando l’intervento, il prof. Mumtaz ha precisato che l’operazione è durata tre ore nella notte e che è tecnicamente riuscita. “La ragazza è ancora in stato di incoscienza – ha infine detto – ma ora le sue condizioni dovrebbero migliorare”.

Malala Yousafzai è anche lei alunna del Liceo  Per capire di più,  un articolo di Luca Miele

«Abbiamo paura dei taleban. Da un momento all’altro possono buttarti dell’acido in faccia. Sono dei barbari», confessava anni fa, nel blog che curava per la Bbc Urdu a soli undici anni, Malala Yousafzai. Quei «barbari» non hanno dimenticato. Né perdonato. Sono tornati, con il carico di morte. Hanno persino rivendicato, i taleban. Malala, 14 anni, aveva una sola colpa: aver sfidato il potere della barbarie. Non a colpi di bombe, ma con le parole. Rivendicando il diritto per le ragazze pachistane all’istruzione. Il diritto a un vita normale. A un’esistenza libera dai divieti imposti dai fondamentalisti. Il divieto di andare a scuola, di andare al mercato. Ora Malala lotta tra la vita e la morte. Chi le ha sparato – due colpi, una l’ha raggiunta al collo l’altro a un braccio – non voleva sbagliare. Voleva eseguire una sentenza. Forse due uomini armati, forse un solo killer. L’uomo ha intimato all’autista dello scuolabus sul quale la ragazza viaggiava con alcune compagne di fermarsi. Ha ordinato alle studentesse di scendere. Ha chiamato per nome Malala. Le ha sparato. La ragazza è stata portata nell’ospedale di Mingora nel capoluogo della valle dello Swat.

Malala vive in una terra maledetta. Quella valle dello Swat, a nord ovest rispetto alla capitale Islamabad, teatro di un conflitto sanguinoso tra taleban e governo. Alla fine del 2007 gli islamisti conquistano la valle. Signoreggiano. Impongono la sharia. Uccidono. Tormentano. Prendono di mira le scuole femminili. Il loro regno dura fino al 2009, quando un’offensiva dell’esercito spazza via il loro dominio. Malala inizia a scrivere. Sotto pseudonimo, anche se la sua identità verrà poi svelata. Viene insignita della maggiore onorificenza civile del Paese. Sul blog confessa le sue paure. I «barbari» costringono le ragazze a rinunciare alle uniformi da scuole. Lei e le sue compagne fingono di non essere delle studentesse. Almeno 400 scuole vengono distrutte. «Non possiamo studiare nelle tende – scriveva Malala – fa troppo caldo». Con la “riconquista” fa parte dell’esercito, anche le ragazze sembrano riconquistare la normalità. «Ora possiamo tornare a scuola, siamo libere», giubilava. Ma era una normalità fragile, di carta. Malala viene minacciata. Sfugge a un attacco. I «barbari» non hanno dimenticato.
«Ho sognato di un Paese in cui l’istruzione sia un diritto per tutti», ha scritto, piena di speranza, Malala. Per sognare ci vuole coraggio.


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