Sono soltanto ragazzi


di Vincenzo Andraous

Poco più che bambini, adolescenti di poco imbarazzo, giovani con le gambe larghe e le mani in tasca, quando camminano sul marciapiede non consentono a chi arriva in senso contrario di passare, ci scappa la spallatina, la parola di troppo, lo sguardo piccato di chi non è abituato a rispettare le precedenze, manca l’educazione di accettare l’attesa della pazienza. Certo non serve a niente sparare nel mucchio, tanto meno fare confusione con le età, con i colori delle passioni che non collimano con le emozioni, e scavano trincee nei comportamenti quotidiani. Come quel giovanissimo che ho conosciuto attraverso il network, un viso rotondo, gioioso, eppure in ogni parola una clessidra di spigolature, di asprezze, di gomiti in linea di tiro, immagini da scommessa di luna park. Un adolescente con le movenze da adulto, la postura da combattente di una guerra che non è mai stata sua nè mai lo sarà, con gli occhi di un cerbiatto spaventato.

Un incontro in rete per caso, poche righe buttate lì, svicolando dai segnali di allarme, dalle indicazioni di pericolo, dalle luci rosse di emergenza non più lampeggianti, oramai paralizzate sulla fermata da rispettare. Poche righe per fare rumore, per mascherare l’inquietudine, e nascondere la paura e l’inadeguatezza, attraverso i tanti beveroni bevuti in fretta, nelle pasticche calate giù tanto per fare qualcosa. Sono solo ragazzi, alla ricerca di risposte affrettate che bruciano i tempi corti, mentre per le domande ci sarà tempo domani, e poco importa se saremo vivi, storti o morti per prenderne visione.

Facebook e le troppo storie inespresse, piccole parti recitate in qualche bestemmia, nelle imprecazioni isteriche, nei sassi lanciati a casaccio, come a voler raccogliere un rimprovero, un richiamo al proprio dovere negato, un’attenzione che manca all’appello con incredibile indifferenza. Scorrendo l’home page, quel viso impertinente e provocatore, sprovvisto di fede e di passione, mantiene inalterato l’urto e il fastidio, e seppure banale in ogni sua fuga in avanti, in ogni frase smozzicata, persino nel pugno  raccontato a piccole dosi, c’è un rimando, malcelato, ma c’è ed esiste, a significare come ha ben detto un grande educatore: a volte fanno del male, ma sognano di fare il bene. Si tratta di un rimando denudato di aggettivi, di superlativi, dei suoni artefatti per sostenere lo sguardo alla richiesta posta tra una riga e l’altra, lasciata lì, per caso: la necessità di un aiuto, di una conoscenza del valore di giustizia, di un perdono che rappresenti una nuova opportunità di slegare i lacci ai polsi,  le bende agli occhi,  i nodi al cuore che non sa più stare in disparte, sottocoperta, ai margini di una età che esige avventura, scoperta, incontro, partecipazione.

Ho incontrato quel ragazzo, l’ho avuto di fronte per un pezzo di strada insieme, un giovane spostato su una trasgressione-ribellione da pochi centimetri in avanti, qualche centinaia di metri indietro, inconsapevole che chi ha da dire cose nuove, ci tiene a farsi capire, invece di rimanere impigliato nelle strade chiuse alle informazioni, barricate alle idee che aiutano a crescere per diventare finalmente più maturi. Facebook e i suoi territori dove gli amori non sono reciproci, mentre dovrebbero esserlo se fossero veri, pagine impalpabili per slogan da saldi anticipati, emulazioni di falsi eroi,  falsi miti eretti a simulacri di periferie esistenziali.

Più conosco questo ragazzo più mi convinco che sbagliare è umano, ma fondamentale è usare le difficoltà come stimoli per migliorare le proprie capacità, perchè davvero da qualsiasi situazione è possibile apprendere il valore della vita, e non permettere mai alla nostra mente, al nostro cuore di finire in un angolo perso dove non si vede più niente.


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