
di Giovanni Grandi
Per noi triestini che siamo stati “internazionali” sotto l’Impero Austro-ungarico per molto più tempo di quanto non siamo stati “nazionali” (e nazionalisti) sotto l’Italia, per chi ancora sente parlare nei racconti popolari di quando «l’Austria ghe ga intimà guera ala Serbia», la percezione del collasso di civiltà a cui si va incontro nei conflitti armati rimane molto forte. Nessun triestino dei primi del Novecento, potendo viaggiare liberamente su un territorio di quasi 700.000 km quadrati, in cui si parlavano una ventina di idiomi e con alle spalle 40 anni di (relativa) pace, avrebbe probabilmente creduto possibile che nell’arco di poco tempo quell’area sarebbe stata riframmentata tra otto Stati sovrani. La guerra sembra sempre a tutti la cosa più assurda, fino al giorno prima in cui scoppia. Poi, sui libri di storia, lo stupore generale sbiadisce, e tutti abbiamo imparato che l’assassinio dall’Arciduca Francesco Ferdinando fu in effetti un casus belli, il detonatore di una polveriera già insidiata da molti focolai. Focolai che però, almeno di questo dovremmo ricordarci, ciascuno dei diversi fuochisti o dei diversi pompieri pensava fossero in fondo controllabili e governabili con qualche locale trattativa o aggiustamento.
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