di Alessandro D’Avenia
Diciamolo ai ragazzi che le poesie crescono nelle raccolte e non nelle antologie. Facciamoglieli vedere i nostri libri di poesie, letti, sottolineati, vissuti. Altrimenti poi non possiamo stupirci che pochissimi in questo Paese leggano libri di poesia (e li comprino anche). Oggi un ragazzo di quindici anni quando ha visto la mia vecchia edizione di Lavorare stanca di Pavese, ha esclamato leggendo il titolo: è proprio vero. Sì, è proprio vero, la poesia, quella che crea le condizioni perché la bellezza si dia, riesce a dire solo la verità. Per questo ne leggiamo poca, perché, troppa realtà tutta in una volta, il genere umano non la sopporta. Torniamo a impararle e farle imparare a memoria, invece di ridurle a problemi psicologici dell’autore, perché imparare a memoria è l’atto di interpretazione più giusto per una bella poesia, come per un brano musicale lo è la sua esecuzione. Il resto sono chiacchiere. Oggi più che mai, così tesi a restringere la vita, la poesia resta il baluardo spirituale capace di dare il più ampio consenso alla vita senza soccomberle, la mappa per abitare ogni stanza della casa dell’essere, anche quelle più oscure, anche quelle più luminose. Non riusciamo più a pregare, per lo stesso motivo per cui non leggiamo poesie: ci siamo rassegnati al fatto che la realtà sia solo quella che si vede.
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