Sapere per quale motivo ci si sveglia la mattina, che equivale poi a dare un nome al proprio sogno. Trovare i maestri che prendano sul serio l’unicità di un giovane. Avere la coscienza che tale unicità è fatta non per affermarsi ma per servire gli altri. Sono queste le tre impegnative consegne che Alessandro D’Avenia, insegnante e scrittore, ha lasciato alla platea di mille e cinquecento studenti delle scuole superiori di Frosinone e provincia, incontrati stamattina, 3 dicembre, presso il Palazzetto dello Sport del capoluogo ciociaro per la presentazione del suo ultimo romanzo, “Ciò che inferno non è”, appena uscito per Mondadori. Organizzato dalla libreria Ubik, l’incontro con uno degli autori che negli ultimi anni più ha fatto breccia negli interessi dei lettori giovani, non ha in realtà rispettato il canonico schema di puro evento editoriale, trasformandosi piuttosto in una vera e propria inedita lezione sulle domande degli adolescenti, sulla sfida che è la vita, sui talenti da mettere in campo per rispondere alle attese più profonde del proprio cuore. Il professor D’Avenia ha sfoderato le sue capacità comunicative davanti al folto pubblico giovanile ma anche a tanti insegnanti e, da vero educatore, tra una citazione dal latino e una battuta sul complicato mondo dei ragazzi, è andato senza remore a toccare il “cuore della questione”: quella tensione irresistibile alla pienezza che ogni giovane si porta scritta finanche nella spasmodica cura del corpo, «che cerca in realtà di stare a passo con lo spirito, vera dimensione in cui l’uomo trova se stesso». Da qui l’autore di “Bianca come il latte, rossa come il sangue” e di “Cose che nessuno sa” non ha esitato a tessere un elogio dell’adolescenza, «tempo della libertà in mano tua», e, volendo parlando quasi a ciascuno dei tantissimi studenti, ha chiesto loro di mettersi in gioco con le proprie luci e le proprie ombre, attraverso due scelte di fondo: «non sprecare la propria unicità» e «lasciarsi guardare negli occhi da chi se lo
merita», da quei maestri, cioè, il cui sguardo può davvero cambiarci. Come è successo a lui stesso quando, giovane liceale a Palermo, incrociò gli sguardi dell’insegnante di Lettere che amava ciò che insegnava, e del prof di Religione, un tale don Pino Puglisi che sarebbe di lì a poco stato ucciso dalla mafia. «Il primo», ha raccontato D’Avenia, «mi fece scoprire cosa fare nella vita, il secondo, soprattutto dopo il suo assassinio, come avrei dovuto farlo». E proprio alla vicenda di don Puglisi è dedicato “Ciò che inferno non è”, ispirato nel titolo ad un racconto de “Le città invisibili” di Calvino: un romanzo che D’Avenia ha rivelato di aver scritto «per capire come si fa ad essere così liberi dinanzi alla morte, come è stato don Pino che sorrise al suo assassino». Il messaggio lasciato ai giovani di Frosinone è stato lo stesso che scrisse col sangue il parroco di Brancaccio: «scorgere in mezzo all’inferno ciò che inferno non è e dargli spazio, farlo crescere». A giudicare dai tanti calorosi applausi dell’uditorio, i mille e cinquecento hanno capito e sottoscritto appieno.
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