di Simone Esposito
Sono isolato da tredici giorni in una stanza di casa mia dietro una grossa porta di legno e oggi ho ripensato a quando avevo poco più di 18 anni e una mattina d’estate feci una di quelle cose che fanno quelli che hanno poco più di 18 anni. Dovevo andare a Foggia al distretto militare a consegnare la domanda di rinvio della leva (sarei partito poco dopo per l’università a Roma) e avevo preso la patente da pochissimo. I miei erano al lavoro, la macchina in garage, e mentre uscivo di casa le chiavi mi guardarono. Giuro: mi fissarono. E mi dissero: prendici. Di arrivare a Foggia guidando non avevo il coraggio: 18 chilometri di statale, più strade cittadine di cui non ero pratico, troppo difficile. Ma i 18 anni restavano, le chiavi continuavano a fissarmi, e decisi per l’opzione tipica di noi bravi ragazzi spaventati dai colpi di testa ma non rassegnati alla diligenza: la cazzata moderata. Presi le chiavi, scesi in garage, segnai con precisione col gesso sul pavimento la posizione delle ruote per poter rimettere più tardi l’auto esattamente come ce l’aveva messa mio padre, mi misi al volante e guidai fino alla fermata dell’autobus per Foggia – non più di 800 metri da casa mia, parcheggiai e presi il bus. Perdoname madre por mi vida loca.Arrivai a Foggia, consegnai il rinvio al distretto, mi feci una passeggiata in centro e a fine mattinata me ne tornai alla stazione. E lì, mentre aspettavo l’autobus del ritorno, mi accorsi che in tasca le chiavi della macchina non ce le avevo più. Il sole dell’agosto foggiano picchiava sulla testa, ma mai quanto me l’avrebbero sfasciata i miei. Ero senza fiato, atterrito all’idea di dover tornare a casa e raccontare tutto. Pensare di mettermi a cercare le chiavi era impossibile: ero stato in giro per più di tre ore, avevo camminato chilometri, potevano essermi cadute ovunque. Era finita, e basta. Il pullman arrivò. Rimasi accanto al portellone aperto fino all’ultimo, congelato dal terrore nell’afa dei quaranta gradi del piazzale. Poi l’autista montò su e dovetti salire. Mi buttai sul primo sedile libero, le mani in faccia. L’autobus partì. Lucera si avvicinava minuto dopo minuto, e pure la mia morte, pensavo. Finché a metà strada, sulla statale 17 (quella di Guccini), mentre spurgavo col sudore la mia condanna nell’attesa di un’esecuzione certa, sentii qualcosa pungermi il culo. Lì, incastrate tra i due sedili della corriera Foggia-Lucera delle Ferrovie del Gargano, c’erano le chiavi della Ford Escort Explorer station wagon verde petrolio dei miei genitori. Le avevo perse all’andata. Ed erano rimaste lì, nessuno le aveva trovate e prese. E nonostante quella tratta avesse una corsa ogni mezz’ora, per puro caso ero finito proprio sullo stesso mezzo. E per caso purissimo mi ero seduto nella stessa fila di posti. Come dicevo, è la Vigilia e sono isolato da tredici giorni in una stanza di casa mia dietro una grossa porta di legno, travolto dai contagi scolastici e positivo insieme a Daniele, pochissimo sintomatico all’inizio io, lui per nulla. Oggi pomeriggio, rimasto da solo (è arrivato il referto negativo di mio figlio, io aspetto ancora la sentenza di liberazione) ho ripensato a quella mattina di agosto in cui tutto mi pareva perduto e nulla invece lo era davvero. In questi lunghi giorni penosi (soprattutto per mio figlio, imprigionato come a sei anni è impossibile concepire) ho scoperto di essere seduto sulla misericordia di Dio esattamente come allora, inaspettatamente, immeritatamente. L’ho ritrovata nella salute mantenuta, nell’abbraccio di Daniele la notte nel divano letto, in Susanna accucciata dietro la porta ad aspettarmi, nelle lacrime di mia mamma al telefono, nella preoccupazione di mio padre e di mio fratello, nei disegni di Davide, nelle buste della spesa di mia sorella appese la mattina alla maniglia della porta, nei seicento chilometri fatti da mia cognata e suo marito per portarci il pacco da giù e un sorriso da sotto alla finestra, nella processione di amiche e amici coi loro regali sul pianerottolo, nel sostegno delle colleghe, nelle telefonate e nei messaggi di chi ci vuole bene. E nella resistenza senza cedimenti di Rita, che ha tenuto in piedi tutto, solo lei per tutti e due. E stasera, pure se la porta rimarrà chiusa e non abbraccerò nessuno, so già che mi sentirò abbracciato ugualmente come quando, da ragazzino, sentivo Dio di notte nel peso del piumone sul mio corpo steso nel letto. Non c’è buio e non c’è freddo, Dio viene, e nessuno è solo mai.

Che bella testimonianza! Grazie!
E…Auguri di pronta e felice guarigione… per tanta gioia da condividere con gli abbracci veri.
Liete Festività.