di Alessandro D’Avenia
«Che cosa hanno fatto?» chiede il bambino tremante osservando i quattro impiccati penzolare sulla piazza della città. «Quello che potevano», risponde la madre con rassegnata fermezza. È una delle scene chiave di Jojo Rabbit, bellissimo film che racconta, con equilibrio raro tra comico e tragico, la Germania nazista dal punto di vista di un bambino di dieci anni appena entrato nella Hitlerjugend, la Gioventù hitleriana. «Quello che potevano» è per me la didascalia del Giorno della Memoria: mette al riparo da una ritualità emotiva che fa sentire buoni, ma senza conseguenze. La «retorica della memoria» mostra foglie e fiori splendenti ma di plastica, a differenza della «memoria viva», una radice che invece genera frutti reali. Ricordare una delle più atroci ingiustizie della storia ha senso se diventa opposizione attiva all’ingiustizia quotidiana. Non si può commemorare la shoah durante la prima ora e, la seconda, dire a uno studente «non vali niente». Le ipocrisie della memoria demoliscono la memoria. Per fare memoria non basta narrare l’olocausto e mostrarne i testimoni, per fare memoria bisogna «farsi» memoria. Per questo voglio raccontare una vicenda memorabile ma meno nota: quella della «Rosa Bianca», un gruppo di studenti che, nel giugno del 1942, per opporsi al regime nazista, al suo apogeo, fecero tutto «quello che potevano». Comprarono a proprie spese un ciclostile, scrissero e distribuirono volantini per risvegliare le coscienze assopite o complici. Li spargevano di nascosto in università e nelle cassette della posta. Al sesto volantino, nel febbraio 1943, la Gestapo li scoprì: erano ragazzi poco più che diciottenni e qualche professore. Tutti torturati, dopo un finto processo, per 15 di loro la sorte fu la ghigliottina, per altri 38 il carcere (vicenda narrata con maestria nel film La Rosa Bianca – Sophie Scholl di Marc Rothemund).

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