di Giuliano Guzzo
In seguito ai gravissimi scontri in Iraq, Siria ed alcuni Stati dell’Africa è tornato d’attualità il dibattito sul terrorismo islamico, la sua natura, le sue origini e, più in generale, sulle più efficaci misure di contrasto a questo fenomeno, appare contrassegnato, come ciascuno può constatare, da un paradosso curioso anche se, a ben vedere, già tipico di molte controversie moderne. Alludiamo al fatto che il tentativo di giungere a prospettive e soluzioni condivise, nonostante la mole di risorse investite, sia a livello istituzionale che accademico, viene puntualmente vanificato dal riemergere di divisioni; come se l’impegno profuso fosse stato inutile e le divergenze di vedute fossero – come qualcuno, palesando rassegnazione, sostiene – insanabili e destinate ad accentuarsi. Anche perché, come vedremo meglio più avanti, uno degli aspetti che complicano maggiormente la possibilità di fronteggiare con efficacia il terrorismo islamico, deriva dal mancato accordo, soprattutto nel mondo politico, circa l’identità degli attori legittimati a potersi confrontare sulla questione: c’è chi sottolinea, se non la totale impossibilità, la fortissima difficoltà, per l’Occidente, di dialogare fecondamente col mondo islamico, sposando in buona sostanza la tesi d’una contrapposizione storicamente permanente [1], mentre altri, pur senza sottovalutare la complessità e le implicazioni derivanti da un confronto con una realtà confessionale variegata come quella musulmana, denunciano la regia mediatica di un clima volutamente ostile al mondo musulmano[2] e manifestano, sia pure cautamente, atteggiamenti possibilisti [3], consapevoli del fatto che, a differenza di altre confessioni, l’Islam oggi più che mai «manifesta una forza enorme» [4], aspetto che accresce la difficoltà, specie un mondo secolarizzato, di rendersi interlocutore competente.
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