Solo esteriormente la violenza terroristica può essere definita disumana. Nel senso che, a bene vedere, ogni ideologia totalitaria — ieri il comunismo bolscevico e il nazional-socialismo, oggi fenomeni quali il jihadismo — nasconde in effetti un’inclinazione umana, fin troppo umana, al dominio sull’altro e all’uso strumentale della violenza e del terrore per fini suoi propri.

Lo scrive Dario Fertilio aggiungendo che qui, forse, bisogna cercare, quando si tenta di spiegare, di dare un senso alle autobombe dell’Iraq, alle decapitazioni dell’Is, alle imprese suicide di Al Qaeda, alle stragi di innocenti di Boko Haram.
Le interpretazioni correnti di questi fenomeni tendono a cogliere alcuni aspetti del terrorismo jihadista: anzitutto l’intenzione di far provare dolore al nemico per “educarlo”. Poi — come nel caso dell’uccisione di 141 allievi della scuola di Peshawar in Pakistan, il 16 dicembre scorso — l’accanimento contro la cultura, soprattutto quando è destinata a donne e bambini, un accanimento per lo più considerato espressione di oscurantismo, figlio di una non meglio specificata arretratezza culturale. Qualche volta si mette in rilievo come le tecniche terroristiche siano usate secondo lo stesso principio utilizzato in natura dalla biscia nei confronti della rana: la paura paralizzante che facilita l’aggressione e la liquidazione della preda. In mancanza di meglio, ci si rifugia nella generica demonizzazione degli atti malvagi: essi sarebbero per definizione “assurdi”, “deliranti”, “folli”.
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