di Luigino Bruni per http://www.avvenire.it
Questo primo maggio è una festa mesta. Ma sempre festa è, ed è bene che sia così. Una festa con i panni del lavoro, e con quelli del non-lavoro. Una festa accompagnata dalle lacrime, a volte vere depressioni, dei disoccupati, di chi il lavoro l’ha perso o di chi, giovane, non lo trova. Oggi dovremmo ascoltarli di più e meglio di ieri, metterci al loro fianco. Dobbiamo festeggiare il lavoro, soprattutto quando soffre ed è in crisi, perché le feste sono preziose nei tempi della prova, quando si attraversano i deserti, quando nasce la nostalgia delle ‘cipolle’ della schiavitù dell’Egitto. Ma non dimentichiamo le lacrime di chi non può lavorare il giorno prima e il giorno dopo della festa, se vogliamo che quella di oggi sia davvero festa della Repubblica, festa di tutta l’Italia.
La fusione, oggi, tra la festa del primo maggio e quella del due giugno, sarebbe forse l’unica riduzione accettabile dei giorni di festività, perché quando il lavoro non c’è, o è cattivo, troppo precario e insicuro, è il muro maestro della Repubblica a cedere, che è il primo muro di ogni casa. Il tasso indecente di disoccupazione è la prima tassa sulla nostra Casa comune; una tassa disumana, questa sì, che dovremmo subito abrogare. Quella di lavoro sta diventando la più grande carestia delle nostre società, una carestia che convive, come tutte le carestie della storia, con l’opulenza di tanti altri, per i quali le crisi della povera gente, o semplicemente della gente comune, non iniziano né finiscono mai, perché non ne sono toccati, e a volte ne sono anche avvantaggiati.
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