Scuola.. o prigione?


di Roberto Carnero per http://www.avvenire.it

gioviolDa inse­gnante di liceo, quest’anno sto lavorando in ospedale, in una delle ‘sezioni ospedaliere’ attive per i ragazzi ricoverati per lunghi periodi. Per tre giorni alla settimana sono impegnato in un reparto di Neuropsichiatria, dove si trovano in cura adolescenti con diverse patologie. Periodicamente ci incontriamo, noi docenti, con i medici e con gli psicologi che seguono i ragazzi, per conoscere la loro situazione e capire con quali modalità concrete agire nel lavoro didattico. In questo quotidiano contatto con la sofferenza psichica sto imparando molte cose. Ogni caso è a sé e non si può generalizzare. Però si ripropongono spesso alcune costanti. Potremmo dire, in particolare, che nella stragrande maggioranza dei casi l’origine del disagio ha a che fare con due realtà: la famiglia e la scuola. Vedo che famiglie distoniche, conflittuali, disgregate possono produrre nei ragazzi uno squilibrio, che rischia di approdare a esiti anche molto gravi. Per questo capisco sempre più la saggezza della Chiesa, quando non si stanca di difendere la verità della famiglia, oggi attaccata su più fronti. Ma, in quanto docente, mi interrogo soprattutto sulla scuola. Com’è possibile che l’esperienza scolastica possa determinare un rifiuto e una sofferenza tali da diventare paralizzanti? Va detto che le motivazioni profonde di una psicosi rimangono spesso oscure, un enigma anche per gli stessi specialisti. Eppure in molti casi è chiaro che l’innesco dei problemi è proprio la scuola. Quell’ambiente che dovrebbe essere per eccellenza il luogo della crescita personale, della socializzazione, della formazione culturale, insomma luogo di scoperte, di curiosità, di entusiasmi, spesso viene percepito come un carcere. Ha scritto Oscar Wilde: «Una scuola dovrebbe essere il posto più bello di ogni città e di ogni villaggio, così bello che la punizione, per i ragazzi indisciplinati, sarebbe di essere privati della scuola l’indomani».
Temo che siamo molto lontani da quell’auspicio. Mi trovo in una situazione un po’ paradossale: a fare scuola ad adolescenti i cui problemi molte volte si sono manifestati a scuola e sempre a scuola sono esplosi. Si tratta di riannodare un rapporto, una fiducia reciproca. Ciò che emerge dal loro vissuto è il fatto di avere percepito la scuola come un posto freddo, lontano, giudicante, punitivo, ma soprattutto impersonale. Per noi insegnanti in ospedale si tratta di conoscere bene ogni singolo studente, ascoltarlo prima ancora di parlargli per trasmettergli i contenuti disciplinari, cercare di abbattere il muro del mutismo o della diffidenza. Ma perché nella scuola fuori dall’ospedale, cioè in quellaordinaria, un approccio di questo tipo è così difficile? Certo, i numeri non aiutano, perché quando si hanno classi di 32 ragazzi diventa complicato conoscerli davvero.
Negli ultimi anni per la scuola statale le cose sono molto peggiorate, perché si è deciso di risparmiare e di tagliare a tutti i costi, senza preoccuparsi troppo della qualità dell’offerta formativa. Ma credo che sia anche questione di impostazione mentale di noi docenti. Nella scuola di ieri, quella che abbiamo frequentato, eravamo noi studenti a dover ‘salire’ faticosamente al livello degli insegnanti. Oggi questo modello non funziona più, perché l’esperienza ci insegna che esso rischia di produrre ansia da prestazione, frustrazione, competitività esasperata. È dunque urgente un mutamento di paradigma, una rivoluzione copernicana che metta al centro del percorso didattico non più l’istituzione (con i suoi programmi, le sue verifiche, le sue promozioni e bocciature), ma la persona dello studente. Non è facile, perché ci muoviamo in condizioni contestuali decisamente sfavorevoli. Ma sono sempre più convinto che sia l’unica strada che valga la pena percorrere.


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