di Luigi Alici
In uno dei post precedenti avevo ricordato il celebre episodio di Cesare Cremonini, il filosofo averroista che motivava così, in una lettera del 29 luglio 1611 indirizzata a Galilei, il proprio rifiuto di guardare nel cannocchiale: «Quel mirare per quegli occhiali m’imbalordiscon la testa: basta, non ne voglio saper altro».Era una forma di chiusura pregiudiziale dinanzi ai nuovi scenari aperti dalla scienza, che esigevano prima di tutto un allungamento dello sguardo. Una razionalità statica e autoreferenziale – che alla fine degenera in un’ideologia semplificata e rassicurante – ha sempre un alibi a portata di mano per giustificare la paura del nuovo, che a un certo punto diventa una forma di ostinato rifiuto dell’evidenza. A un livello diverso, è lo stesso atteggiamento gustosamente raffigurato da Manzoni nei “Promessi Sposi” e attribuito a don Ferrante, che con un uso – pasticciato, peraltro – della logica scolastica nega la peste che dilagava a Milano e di cui egli stesso alla fine diventa una vittima.
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