Catastrofi e speranza


di Luigi Alici

Una serie di eventi stanno accrescendo, in questi ultimi giorni, un senso di sgomento e di angoscia collettiva, sommandosi alle preoccupazioni che da qualche anno rendono particolarmente cupo lo scenario del nuovo millennio.
Prima gli attacchi dell’11 settembre, punta di un iceberg in cui il terrorismo internazionale alimenta una spirale perversa di fondamentalismo e fanatismo, intolleranza e repressione.
Poi l’effetto-domino prodotto dalla crisi economica, che ha portato in superficie una miscela micidiale e terribile, i cui ingredienti sono costituiti, ai livelli più bassi, da leggerezza e incoscienza, fino a sconfinare, ai livelli più alti, in forme di  vera e propria criminalità organizzata.
Il nostro Paese – inutile nasconderlo – sta vivendo in modo particolarmente drammatico questi eventi. Un potere politico allegramente irresponsabile ci ha venduto per anni, su un palcoscenico frequentato da escort e  faccendieri, sogni consumistici a buon mercato, nascondendo sistematicamente la verità, mentre dietro le quinte si consumava un mercato immondo da bassa cucina.
Quando la crisi ha cominciato a mordere, è stato un brutto risveglio per tutti. La reazione era prevedibile ed è preoccupante: accanto a quelli (ahimè pochi) che cercano di fare una diagnosi e prescrivere una terapia senza andare tanto per il sottile, c’è un pollaio sempre più affollato dove si strilla, rifiutando la medicina e provando a vendere i più improbabili e interessati rimedi miracolosi.
In questo contesto, una bomba all’ingresso di una scuola strazia i corpi di ragazze innocenti, ponendoci dinanzi all’irrazionalità assoluta di una aggressione che ci spezza il cuore, che non ha e non può avere alcuna attenuante. Quei quaderni rimasti in mezzo alla strada sono il segno di una promessa interrotta, che deve toglierci il sonno.
Poi c’è un terremoto, che scuote edifici antichi e fa crollare capannoni moderni. Ancora un evento assurdo, che segna in modo indelebile il tempo della vita, facendoci sentire di colpo impotenti e spaesati, ma anche capaci di slanci inattesi di solidarietà.
Forse avevamo dimenticato che il male esiste. Un male in cui però dobbiamo imparare a distinguere fra la drammaticità di un evento naturale, del quale possiamo essere responsabili solo in modo indiretto (quando, ad esempio, costruiamo edifici troppo fragili), e la tragicità del male morale, di cui qualcuno (o peggio, un insieme organizzato di persone) si rende intenzionalmente e direttamente responsabile. Il male progettato, voluto e realizzato per fare del male.
Non è la stessa cosa. Non dobbiamo perdere il senso della differenza fra male naturale e male morale. Nel secondo caso, ci siamo di mezzo noi, la nostra libertà, il nostro egoismo, la nostra malvagità, a volte davvero diabolica.
In questo caso, la presenza del male non è altro che assenza di bene. Non basta, per vivere insieme, provare orrore dinanzi al male: dobbiamo condividere anche una medesima idea del bene; una medesima passione, una medesima speranza. Altrimenti la nostra convivenza assomiglia a un’antica città che si sbriciola, sull’orlo di un precipizio. Babele dovrebbe insegnarci qualcosa.
Dopo aver rimosso per troppo tempo il senso del limite, della fragilità e del male, rischiamo di perdere anche l’antidoto più efficace: la speranza per la vita che nasce, che dobbiamo proteggere con la massima delicatezza ma anche con tutta la nostra forza.

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