di Simone Esposito

Aveva solo 25 anni quando scrisse queste parole, chiedendosi davanti alla parabola: a che servono questi talenti? “Perché chi ha avuto più talenti, deve conoscere di più il bene e il male che c’è nella vita sociale: deve arricchire di ideali, di forza, di entusiasmo la sua vita, e deve insieme acquistare il senso del possibile, del concreto, del pratico. Solo quando riuscirà a trasformare l’elaborazione del pensiero in strumento vivo di miglioramento sociale potrà dire di averli fatti fruttificare i suoi talenti”. In lui era già chiaro quello sarebbe stato il filo rosso della sua esperienza umana, professionale, politica e cristiana: quella inesorabile tenacia nel seminare il bene, nel coltivarlo con fatica paziente, nel difenderlo con mitezza, nel testimoniarlo senza cedimenti. Mettendo a vantaggio di tutti quello che troppi preservano per il proprio conto: il tempo, l’intelligenza, la passione, la capacità, la competenza. È in questa mistica del servizio che sta il suo martirio, un martirio cristiano, non solo laico, perché chi ha colpito a morte l’uomo delle istituzioni “nell’adempimento del suo dovere” ha sparato anche al centro della pagina di Vangelo posta a fondamento concreto di quel dovere, di quell’impegno. Ed è per questo che generazioni e generazioni di cristiani, me incluso, si sentono in debito con lui per una radice così profonda che ancora oggi, quarant’anni dopo, tiene in piedi la fede di tanti di noi. Che non abbiamo bisogno di leggerlo stampato nel “proprio” del messale, per celebrare la memoria di San Vittorio Bachelet.
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