di Alessandro Santagata
Ormai lo abbiamo capito, papa Francesco non ha bisogno di esegeti. I suoi discorsi sono chiari e spesso duri e volutamente contundenti. Eppure, solo apparentemente possono sembrare discorsi «semplici». Si prenda, per esempio, l’ultimo discorso ai movimenti popolari tenuto in Vaticano lo scorso 5 novembre. I media hanno dato giustamente molta rilevanza alle parole rivolte ai governi di tutti i paesi in materia di migrazioni, muri e respingimenti. Tuttavia, da una lettura più attenta e contestualizzata nel disegno di questo «papa gesuita» emerge davvero molto di più.
In primo luogo va tenuto presente che quello di novembre è stato il terzo tassello di un unico «discorso» avviato il 28 ottobre 2014, data del primo incontro romano con i movimenti popolari. In quell’occasione Bergoglio aveva gettato le basi della sua pastorale sociopolitica riprendendo molti degli elementi maturati negli anni da primate della Chiesa argentina e figli della sua esperienza nella Compagnia di Gesù e nel CELAM (si veda, tra gli altri, il «Documento di Aparecida» redatto nel 2007 con il contributo decisivo di Bergoglio). Il framework teorico della «teologia del Popolo» argentina (Lucio Gera, Juan Carlos Scannone ecc.) veniva messo a confronto con le parole d’ordine e con la prassi dei cartoneros, dei Sem Terra e degli altri movimenti popolari internazionali riuniti per la prima volta in assemblea in Vaticano.
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