di Roberto Beretta | 29 ottobre 2015
Dal Sinodo è uscita un’applicazione molto decisa del primato della coscienza. Che però ora – a sua volta – non deve diventare la nuova risposta certa e immutabile
Qualcuno lo ha notato (e modestamente l’ho scritto pure io qui e qui): ciò che esce da questo Sinodo non è tanto il sì o il no alla comunione ai separati risposati, o alle coppie gay, o a questo o a quel cambiamento di una concreta attitudine pastorale. E’ il metodo ad essere diverso. E’ il modo della Chiesa di guardare alla sua stessa ortodossia.
Prendiamo un passaggio del discorso del papa: «Aldilà delle questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa abbiamo visto anche che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo – quasi! – per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione. In realtà, le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale – come ho detto, le questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato».
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