di Giovanni Grasso
Il ritorno nelle sale cinematografiche di Roma città aperta , il capolavoro di Roberto Rossellini opportunamente restaurato, offre la possibilità di ricordare la figura e il martirio di due preti vicini alla Resistenza romana, don Pietro Pappagallo e don Giuseppe Morosini, fucilati a Roma nella primavera del 1944, giusto 70 anni fa.
L’indimenticabile don Pietro Pellegrini, il personaggio interpretato da Aldo Fabrizi nel film neorealista, è infatti ispirato alle vicende di queste rappresentative figure del clero della Capitale durante la terribile stagione dell’occupazione nazista. Due preti dal destino parallelo, condannati a morte a distanza di pochi giorni: 24 marzo don Pappagallo, 3 aprile don Morosini. Giudicati colpevoli, allo stesso modo, per aver aiutato ebrei, nascosto militari italiani e alleati e per aver collaborato direttamente con la Resistenza romana. Anche la vicenda del loro arresto ebbe un tratto comune: entrambi vennero denunciati da delatori. Non sappiamo se i due preti fossero in collegamento. Forse non si conoscevano neppure. Ma la loro sorte, così simile e così peculiare, aveva portato nel dopoguerra persino a confonderli. Gli storici del cinema hanno chiarito: nel film di Rossellini don Pietro Pellegrini è chiaramente ispirato a don Pappagallo. Mentre la drammatica dell’esecuzione a Forte Bravetta, è invece legata alla morte di don Morosini.
Il Corriere della Sera di domenica scorsa ha rievocato brevemente la vicenda del film, che uscì nel 1945, ricordando il braccio di ferro tra gli sceneggiatori e la censura proprio sulla morte di don Pellegrini. Le autorità avrebbero preferito che nel film non si mostrasse la fucilazione di un prete effettuata da un plotone di militari italiani. La scena del film, come gli spettatori ricorderanno, fu frutto dunque di un compromesso, e fu sviluppata su questa sequenza: al momento del “fuoco”, i militari italiani del plotone d’esecuzione alzano a sorpresa il fucile e sparano in aria, lasciando vivo il condannato. Al che un ufficiale tedesco, infuriato, si avvicina a don Pietro, legato a una sedia, e gli spara il colpo di grazia alla nuca. Come siano andate veramente le cose ce lo racconta un testimone oculare, il vescovo Luigi Traglia, vicegerente di Roma. Traglia aveva ordinato don Morosini, al quale era legato da grande affetto. Dopo che Hitler in persona aveva respinto la richiesta di grazia formulata dal Vaticano, attraverso l’ambasciatore tedesco a Roma, Ernst von Weizsäcker, monsignor Traglia chiese e ottenne il permesso di assistere il condannato a morte negli ultimi istanti. Così Traglia descrisse la scena: don Giuseppe fu «messo sulla sedia e legato. Fu bendato. Gli fu letta la sentenza in nome del popolo italiano: ascoltò tranquillamente. L’ufficiale comandò il fuoco, ma fosse la trepidazione, fosse un po’ di timor reverentialis, non lo colpirono mortalmente: cadde in avanti, perse i sensi. Mi avvicinai e gli diedi rapidamente l’estrema unzione prima che l’ufficiale […] gli desse il colpo di grazia; ma anche questo non lo finì; e allora gli fu scaricato addosso un fucile mitragliatore. L’ufficiale tedesco protestò, perché questo non doveva accadere; furono anzi accusati gli italiani di aver infierito sul cadavere di don Morosini. Ma l’accusa non è fondata: le guardie furono soltanto in preda a un comprensibile panico».
Le pressioni della censura, insomma, convinsero Rossellini a far sparare il colpo di grazia, nel film, all’ufficiale nazista. Non, però, per compiacere, come sembra scrivere il Corriere, i «cattolici osservanti», ma per tentare di salvaguardare l’onore delle forze armate. Del resto, i cattolici italiani sapevano bene che don Morosini non era stato l’unico prete a essere ucciso dai propri connazionali. Il “Martirologio” del 1963, compilato dall’Azione Cattolica, parla di 191 appartenenti al clero giustiziati dopo l’8 settembre. 158 di questi furono uccisi dai nazisti, gli altri 33, spesso «in nome del popolo italiano», da italianissimi fascisti di Salò.
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