Tent’anni fa la mafia uccideva Dalla Chiesa. Intervista col procuratore Caselli




Il 3 settembre di trent’anni fa a Palermo veniva ucciso dalla mafia il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo. Il mandato del generale come prefetto del capoluogo siciliano durò appena cento giorni. Le istituzioni italiane lo commemorano con cerimonie a Palermo e Torino, e il presidente della Repubblica Napolitano ne ha ricordato la figura di “eccezionale servitore dello Stato”, il cui ricordo è ancora capace di mobilitare le coscienze. Secondo il ministro dell’interno, Anna Maria Cancellieri, “non fu inutile” il sacrificio del generale, che percorse “senza cedimenti la strada della legalità”. E del significato dell’azione di Dalla Chiesa, Davide Maggiore ha parlato con Giancarlo Caselli, procuratore di Torino, già magistrato a Palermo, che ricorda innanzitutto il contributo fondamentale dato dal futuro prefetto alla lotta antiterrorismo:RealAudioMP3 

R. – In una prima fase, Dalla Chiesa arresta con i suoi uomini tutti i capi storici delle Brigate Rosse, che vengono processati davanti alla Corte di Assise di Torino e condannati nel rispetto assoluto delle regole. C’è poi uno sviluppo successivo, dopo il sequestro dell’On. Moro, la strage delle sua scorta, la lunga prigionia di Moro e poi il suo omicidio: Dalla Chiesa viene “recuperato” per la lotta contro il terrorismo, i successi anche in questo caso arrivano in maniera consistente e, forte di questa credibilità, Dalla Chiesa viene invitato ad assumere le funzioni di prefetto antimafia a Palermo. I 100 giorni di Dalla Chiesa, sono però 100 giorni di sostanziale isolamento rispetto al palazzo, 100 giorni di terra bruciata che qualcuno gli fa intorno. Dalla Chiesa va a Palermo e non fa mistero del fatto che affronterà la mafia nella sua globalità, in tutte le sue articolazioni, in tutte le sue implicazioni. Non farà sconti.

D. – Questo approccio senza sconti alla mafia potrebbe essere definito il “lascito” di Dalla Chiesa?

R. – E’ un lascito sicuramente fondamentale. Un altro lascito di Dalla Chiesa, che si concretizza soltanto dopo la sua morte, è che, pochissimi giorni dopo, il nostro Paese finalmente si risveglia da un lungo sonno e nell’ordinamento dello Stato vengono introdotti due pilastri che funzionano ancora oggi: il reato associativo – la mafia punita in quanto tale – e i meccanismi che consentono di aggredire anche il portafoglio, ovvero i patrimoni dei mafiosi. Sono due cose che funzionano ancora oggi e sono il lascito tragico e importantissimo, fondamentale nella lotta alla mafia, di Dalla Chiesa e con lui di Pio La Torre.

D. – Proprio all’indomani dell’omicidio di Pio La Torre, il generale Dalla Chiesa parlò dell’obiettivo di poter guardare in faccia il proprio interlocutore, poter ridere e parlare in terra di mafia. Quanto ci siamo avvicinati a questo obiettivo in questi 30 anni?

R. – Dalla Chiesa trascorse una parte dei suoi 100 giorni cercando di bilanciare l’ostilità del palazzo, aprendosi alla società civile e quindi numerosissimi furono gli incontri con studenti, numerosissimi gli incontri con operai – in particolare dei cantieri navali di Palermo – numerosissimi gli incontri con familiari di tossicodipendenti. Voleva vivere nella società, non vivere barricato nel suo ufficio: era assolutamente consapevole che la mafia si sconfigge non soltanto con le manette. Nell’intervista rilasciata a Giorgio Bocca, che gli chiede cosa si può fare per sconfiggere la mafia, risponde: “Ho capito una cosa molto semplice, ma forse decisiva: ci sono diritti fondamentali dei cittadini che non sono loro assicurati; glieli dobbiamo assicurare effettivamente in modo da trasformarli da dipendenti della mafia in alleati dello Stato. Così si sconfigge la mafia”.

D. – In questo senso, come si può creare una più generale cultura della legalità?

R. – Parlando molto ai giovani, ma non soltanto ai giovani, di legalità in termini di vantaggio, in termini di convenienza, in termini di qualche cosa che, se c’è, ha una ricaduta potentissima sulla qualità della nostra vita. Più legalità significa più opportunità di lavoro libero, più opportunità d’iniziative imprenditoriali non condizionate dalla mafia, significa più possibilità per tanti giovani di essere padroni del loro futuro. Questo oggi accade sempre più significativamente, mi riferisco soprattutto a Libera (l’unione di associazioni che fa capo a un sacerdote torinese, don Ciotti), che opera anche in concreto, coordinando le cooperative di giovani che lavorano le terre confiscate ai mafiosi. Questi giovani realizzano un formidabile riscatto, in termini di dignità, di onore, di presidio del proprio futuro. Il nostro è un Paese che ha ancora tanti problemi di mafia, ma ci sono molti Paesi all’estero che ci prendono come modello, come punto di riferimento per quello che abbiamo saputo fare sul versante dell’antimafia – cosiddetta sociale – che ho cercato di descrivere facendo riferimento all’esperienza di Libera e delle cooperative.

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