Quell’idea di famiglia


di Carlo Maria Martini
La proliferazione dei modelli familiari e, segnatamente, la diffusione delle unioni di fatto e anche delle unioni tra persone dello stesso sesso sono il prodotto di un più generale processo di privatizzazione e di secolarizzazione della cultura, del costume e delle forme della convivenza. Esse interpellano il legislatore, diviso tra l’esigenza di fare i conti con l’evoluzione e la diffusione di nuovi costumi familiari e quella di un ancoraggio etico-sociale.
Il primo e più fondamentale riferimento, per l’ordinamento italiano e dunque per le pubbliche autorità, è rappresentato dalla Costituzione e, segnatamente, dai suoi articoli 29, 30 e 31. «La famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio», così si legge all’articolo 29. Merita notare che si deve a Togliatti la locuzione “società naturale”, ma furono poi Moro e Mortati a esplicitarne il senso. La famiglia è la prima e più originaria «formazione sociale» quella – come recita l’articolo 2 – nella quale si sviluppa e si perfeziona la persona umana. Questo suo carattere originario, precedente allo stato, prescrive ad esso una “zona di rispetto”, lo impegna ad “inchinarsi” alla sua autonomia. Se ne ricava altresì il cosiddetto favor familiae.
Lo conferma la giurisprudenza costituzionale. In una recente sentenza, la Corte registra «la trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza di questa Corte non è indifferente» e accenna alla convivenza di fatto «quale rapporto tra uomo e donna ormai entrato nell’uso e comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale». Ciò tuttavia «non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure», considerato che «la Costituzione stessa ha dato alle due situazioni una valutazione differenziatrice», che esclude «affermazioni omologanti». Una differenza che la Corte esplicita così: «Il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale». Si può considerare cioè l’eventuale rilevanza giuridica di altre forme di convivenza, ma esse non possono pretendere l’equiparazione, quanto a status, alla famiglia.

L’autorità pubblica, dunque, può adottare un approccio pragmatico e certo deve testimoniare una sensibilità solidaristica. Del resto, lo fa la stessa Costituzione, informata da una tensione solidaristica nel suo complesso e sul punto specifico. Alludo agli articoli 30 e 31, ove ci si impegna alla protezione della maternità e dell’infanzia e dei diritti dei figli nati fuori del matrimonio. Ma si deve accuratamente distinguere la famiglia da altre forme di unione non fondate sul matrimonio. Nella famiglia si dà un di più di stabilità e di dichiarata obbligazione sociale che va giuridicamente e socialmente premiata. Come ha notato il costituzionalista Emanuele Rossi, una volta fissata una nitida, inequivoca linea di demarcazione tra ciò che è famiglia e ciò che non lo è, secondo il chiaro paradigma costituzionale, «sul piano delle garanzie da riconoscere alle “non famiglie”, la soluzione non può che essere di tipo pragmatico, valutando di fronte alle diverse misure (l’alloggio, l’assistenza, la possibilità di succedere nel patrimonio e così via) le ipotesi in cui far prevalere le ragioni della differenza e quelle in cui dare preminenza alle ragioni dell’analogia (non tra diversi modelli di famiglia, ma tra famiglia e altre forme di convivenza)». Al vertice delle nostre preoccupazioni deve stare non già il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma piuttosto di sostenere positivamente e di promuovere le famiglie in senso proprio.
Di fronte ai problemi di diritto stanno però le realtà concrete. La valorizzazione individualistica dei rapporti anche nell’ambito della famiglia ha ottenuto sì, come sopra si ricordava, lo scopo di sviluppare un rapporto di affetto e un riconoscimento della pluralità personale dei membri, ma ha indebolito la rilevanza sociale della famiglia e l’ha chiusa in un gioco di rapporti interni, spesso solo sentimentali e affettivi.
Quell’individualismo è perciò responsabile anche d’una concezione troppo e, a volte, solo intimistica e sentimentale della famiglia, che la scollega dalla società e la rinchiude in un universo familistico di comunità chiusa. Essa rischia di riconoscere dignità relazionale solo all’affetto-sentimento e quindi – in ultima istanza – alle pulsioni instabili dei soggetti. Si dà allora dignità ai soggetti componenti della famiglia in quanto individui (uomo, donna, bambino), non in quanto membri del nucleo familiare (sposo e padre, sposa e madre, figlio). Non si può non rilevare infatti che l’enfasi sull’individuo ha portato a miglioramenti sociali, con una attenzione prevalentemente sviluppata però nella direzione piuttosto dei diritti individuali che di quelli personali relazionali (e quindi anche familiari).
Per questo il processo positivo del superamento delle rigidità giuridico-economiche ha accresciuto l’irrilevanza sociale e civile della famiglia. Con la conseguente nascita di nuovi rapporti, basati su quella concezione individualistica: cioè sulla volontà libera e libertaria, che non chiede autorizzazioni sociali né assume responsabilità di stabilità di fronte a chicchessia, se non alla propria libera volontà. Non possiamo nasconderci che la genesi di queste nuove forme relazionali dipende fortemente dalle manchevolezze di una età di chiusure individualistiche e di scarsa solidarietà. Ad essa le nuove forme spesso cercano di opporsi, rimanendo però esse stesse dentro una visione individualistico-atomistica dei rapporti. Viene non di rado affermato che anche alcune di queste forme di convivenza diverse dalla famiglia tradizionale, qualora siano espressione di esigenze di mutuo amore e di mutuo sostegno, possono rivestire, almeno nelle intenzioni, una funzione sociale.
Ma, nel momento in cui chiedono autorizzazione e riconoscimento pubblico, quei rapporti alternativi alla famiglia tradizionale (religiosa o civile che sia) devono sottoporsi anch’essi al giudizio sulla loro rilevanza sociale e civile, in riferimento cioè, per usare un linguaggio più filosofico, al “bene comune”. Una società non può perciò non stabilire una graduatoria di rilevanza tra varie istituzioni che si richiamano a modelli familiari, sulla base delle funzioni sociali che svolgono, della natura relazionale che presentano e della forza esemplare che esercitano. In questa linea le nuove forme di relazionalità non possono pretendere tutte quelle forme di legittimazione e di tutela che sono date alla della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Solo quest’ultima, infatti, riveste una piena funzione sociale, dovuta al suo progetto e impegno di stabilità e alla sua dimensione di fecondità.
Le unioni omosessuali, pur potendo giungere, a certe condizioni, a testimoniare il valore di un affetto reciproco, comportano la negazione in radice di quella fecondità (non solo biologica) che è la base della sussistenza della società stessa. Le cosiddette “famiglie di fatto”, pur potendosi aprire alla fecondità, hanno un deficit costitutivo di stabilità e di assunzione di impegno che ne rende precaria la credibilità relazionale e incerta la funzione sociale. Esse infatti rischiano costitutivamente di gettare a un certo punto sulla società i costi umani ed economici delle loro instabilità e inadempienze.
(dal discorso alla città di Milano dell’arcivescovo Carlo Maria Martini per la vigilia di sant’Ambrogio 2000. Pubblicato su “Europa” il 17 marzo 2007)

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