di Ugo Cardinale
L’Italia non ha mai avuto una politica linguistica restrittiva nei confronti di
neologismi d’importazione straniera, anzi a volte la nostra esterofilia si è spinta fino all’uso di espressioni straniere non per necessità, come nel caso di neologismi tecnici (es.mouse) di cui non esisteva il corrispondente in italiano (topo?), ma per vezzo, come nel caso di locuzioni alla moda del tipo “question time”, per indicare i tempi degli interventi parlamentari , proprio nel luogo più tipico della rappresentanza nazionale. Recentemente il Rettore del Politecnico di Milano ha previsto d’autorità l’uso esclusivo dell’inglese nella laurea magistrale e nei master. Può anche essere un utile passo avanti verso l’apprendimento più intensivo di una lingua che per ragioni diverse sta assumendo un ruolo egemonico a livello internazionale, ma può essere anche il preludio di un impoverimento del pensiero con conseguente perdita di sfumature concettuali non irrilevanti. Anche l’Accademia della Crusca, organo che da secoli si batte per la tutela della nostra lingua, ha sollevato il suo allarme in una pubblicazione collettiva che sta per uscire dall’editore Laterza.
Per venire ad un caso concreto, ad esempio, l’espressione Spending review , invocata dal ministro Giarda nell’attuale congiuntura politica che ha affidato ai tecnici il governo del paese, può sembrare una formula efficace nella sua apparente semplicità sintattica, ma non è esente da ambiguità semantiche. Il verbo to spend in inglese non ha un significato totalmente equivalente all’italiano ‘spendere’, perché viene anche utilizzato per indicare un particolare uso del tempo, nel senso di “trascorrere” o di “dedicare il tempo a un particolare scopo”. La valenza del verbo non sembra quindi essere solo strettamente economica, a meno di voler invocare il motto del business man che “il tempo è denaro”. Anche la parola review, come si può rilevare dal dizionario Oxford advanced, può comportare diversi significati, con qualche variante sinonimica. Può significare:a)riesame, riconsiderazione, significato più vicino alla sua genesi sintattica, come composto del prefisso re- (analogo all’italiano ri-) e del sostantivo view, visione; può però significare anche b)survey, indagine, report, relazione; c) recensione , con apprezzamenti valutativi. Come ogni parola che nasce dai meccanismi di composizione della lingua, review conserva nascosto il significato d’origine, ma diventa un “sintema”[1], cioè subisce una trasformazione che le conferisce un significato autonomo, diverso dalla semplice somma delle sue parti componenti. Review per lo più non è solo un ‘veder di nuovo’, una semplice re-visione, in senso ripetitivo, iterativo, come d’altra parte, non lo è neppure il corrispondente italiano ‘revisione’. Come ben lo sa chi ha a che fare con i revisori dei conti! La traduzione cui fa invece riferimento il dizionario on line Treccani.it ‘ resoconto di spesa o resoconto delle spese’ non sembra esprimere compiutamente l’idea congiunta all’espressione inglese del “passare in rassegna, rivedere le spese e revisionarne i criteri”.
Ecco perché non è auspicabile prendere a prestito parole straniere per operazioni che riguardano le politiche pubbliche nazionali,sia pure con il nobile scopo di lusingare i mercati, se non si vuole surrettiziamente sostituire la tecnocrazia alla democrazia. La politica linguistica della Francia insegna: infatti, quando ha adottato nel 2008 politiche ispirate alla “comprehensive spending review” del Regno Unito, ha preferito usare una formula francese ” La Revue Générale des Politiques Pubbliques”.
continua qui spending_review.htm
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