di Luigi Compagnoni, Architetto

Una cartolina in bianco e nero, trovata tra le stampe ingiallite di un negozio di cartoline d’epoca, può dire più di un dossier. Nella sua semplicità ritrae la nostra piazza principale all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso: ombre nette, marciapiedi affollati, chi si ferma a parlare o si guarda intorno in attesa di qualche amico o conoscente a cui ha dato appuntamento, chi è appena sceso dalla corriera magari arrivando da un paese vicino per recarsi a far visita a qualche parente ricoverato nell’ospedale di via Roma. Non è nostalgia a buon mercato: è memoria di un dispositivo urbano che funzionava, perché metteva al centro non le cose ma le persone.
Quella mattina d’estate – si intuisce dal taglio della luce sulle facciate – la piazza non è scenografia: è pratica quotidiana. Le notizie passano di bocca in bocca, le persone attraversano trasversalmente lo spazio perché è naturale farlo, il fornaio, il calzolaio, il barbiere, il bar ecc… si “affacciano” davvero sulla vita pubblica. Il tempo sembra dilatarsi non perché tutto fosse più lento, ma perché gli scambi erano più densi. La piazza era un condensatore sociale.
Poi qualcosa si è incrinato. Non in un giorno, ma per stratificazioni successive:
- Mobilità e sosta hanno divorato le soglie. Le auto hanno trasformato lo stare in attraversare.
- Commercio disperso: nuove polarità ai margini del centro abitato ne hanno svuotato il cuore.
- Manutenzione intermittente e arredi senza gerarchia hanno reso confuso ciò che prima era leggibile.
- Mutamenti demografici e abitudini domestiche più chiuse anche a seguito della rivoluzione digitale hanno impoverito gli usi spontanei di contatto interpersonale.
Non è solo “colpa della modernità”. È il prodotto di scelte – spesso in buona fede – che hanno privilegiato nel passato l’efficienza sul contatto, il flusso sullo stazionare. L’urbanistica, quando dimentica il contesto, disegna spazi corretti ma muti e questa riflessione è rivolta a tutti dagli Architetti, agli Amministratori, ai Cittadini. E la piazza, che vive di dettagli (l’ombra al momento giusto, la seduta orientata bene, la soglia accogliente), soffre più di altri luoghi.
A mio avviso è che si può invertire la rotta senza musealizzare nulla. Non serve imitare il passato: serve riattivare le condizioni che lo hanno reso vivo. Alcune leve, concrete e a portata di mano:
- Gerarchia dello spazio pubblico
- Ridurre la sosta di attraversamento a favore di una sosta breve regolata per carico/scarico nelle ore utili ai negozi.
- Potenziare e connettere aree di parcheggio pubblico a ridosso o nelle vicinanze.
- Solo con un piano parcheggi si potrà disegnare -finalmente- la sezione “a velocità umana”: carreggiata stretta, attraversamenti corti, bordo continuo per chi cammina.
- Comfort microclimatico e soste vere
- Oltre alle alberature per l’ombra, vele d’ombra temporanee dove non lo è; sedute comode anche permanenti, non solo “panchine a catalogo” cioè mobili.
- Fontanella, acqua nebulizzata nelle settimane calde: piccoli gesti che prolungano lo stare.
- Soglie attive
- Incentivi per chi apre vetrine “porose” (banconi, espositori mobili, uscite su plateatico-dehor), con arredi reversibili e curati.
- Regole semplici: pochi divieti, alcune prescrizioni chiare su materiali, colori, ingombri.
- Calendario minimo, uso massimo
- Un mercato settimanale selezionato, due rassegne stagionali leggere (musica da strada, letture), tre ricorrenze civiche curate.
- Niente “eventificio”: meglio micro-eventi frequenti che poche kermesse invasive.
- Superfici che spiegano dove stare
- Superata l’impasse degli ultimi interventi di riqualificazione di dubbio valore ed oggetto di indagini giudiziarie si dovrà tornare a nuove proposte come pavimentazioni si continue ma disegnate: la trama indica i percorsi, la tessitura allarga gli slarghi di sosta. Utilizzo di superfici drenanti.
- Segnaletica discreta e coerente: meno cartelli, più indizi spaziali.
- Cura come politica
- Piccola manutenzione settimanale visibile. La pulizia è urbanistica quotidiana.
- Adozioni di aiuole e sedute da parte di scuole, associazioni, comitati: responsabilità diffusa.
- Ascolto strutturale, non rituale
- Laboratori di quartiere mirati: mappare orari d’uso, conflitti, desideri.
- Verifica dopo 6 e 12 mesi con micro-metriche: tempo medio di sosta, numero di sedute occupate, aperture serali.
Non bisogna “ricreare la comunità” – non si fa a tavolino. Bisogna togliere gli attriti che la scoraggiano e aggiungere le opportunità che la invogliano. La piazza torna a funzionare quando è semplice fermarsi, conveniente incontrarsi, bello restare anche dieci minuti senza fare nulla.
La cartolina ce lo ricorda senza retorica: la piazza non è un monumento, è un patto. Se la trattiamo come un bene comune – con regole chiare, cura minuta e un progetto leggibile – tornerà a essere il luogo in cui ciascuno si sente parte di qualcosa che lo precede e lo supera. Non è un sogno romantico: è un obiettivo tecnico e politico insieme, misurabile nella quotidianità.
Riguardando quell’immagine in bianco e nero, non proviamo solo nostalgia. Vediamo una check-list: ombra, sedute, soglie, lentezza, mescolanza di usi. Mettiamola all’opera, con discrezione e costanza. Il resto – le voci, le risate, il passaggio e la sosta delle persone e perché no… anche dei bambini – verrà da sé.
Dedica: alle attività della nostra piazza e di tutto il centro storico, che continuano a lavorare e a tenerci uniti.
Grazie perché custodite relazioni, memoria e vita quotidiana: il cuore vivo della città.
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