9 marzo 1895, muore a Roma il marchese Berardi, rapito dai briganti e modernizzatore di Ceccano


di Vincenzo Angeletti Latini

In occasione dei 130 anni dalla morte del marchese Filippo Berardi (Ceccano, 2 marzo 1830 – Roma, 9 marzo 1895), fratello di mia bisnonna materna, Apollonia, mi soffermerò a ricordarne la tragica morte.
Molto si è scritto sul personaggio, motivo per il quale riporterò brevemente solo aspetti poco conosciuti della intensa vita e delle opere da lui realizzate.
Nato, come i fratelli e sorelle, nel palazzo, che si trova all’inizio di Via Principe Umberto n. 61. Sul sovraportone/rosta sono visibili le iniziali V. B., nome e cognome del padre Vincenzo.
Chiamato in famiglia Pippo, fu da giovane rapito dai briganti e liberato dietro il pagamento di una cospicua taglia. Si diplomò nel Collegio Ghisleri di Roma e concluse gli sudi laureandosi, nel 1852, in giurisprudenza. Versato nelle materie economico-amministrative trovò il primo impiego al ministero dell’Interno, che però lasciò dopo il 1860 per intraprendere la carriera imprenditoriale, più consona alla sua indole. Fu dapprima impiegato nelle vecchie Ferrovie Romane. Fece una piccola fortuna con una fornitura alla ferrovia Roma-Frascati, assunse poi l’appalto del tronco Napoli-Caianello. Nel settembre 1860, all’epoca della invasione sarda delle Marche e dell’Umbria, Filippo che sovrintendeva ai lavori per la costruzione del tronco ferroviario Frosinone-Ceprano, venne arrestato, a Ceccano, con l’accusa di aver sobillato i lavoranti contro il governo pontificio e di aver bruciato carte compromettenti. L’episodio deve inserirsi nel quadro della sorda lotta tra il card. Antonelli e mons. de Merode, che tentava di colpire il potente avversario attraverso le persone a lui vicine. La condanna a morte, da eseguirsi a Velletri, dove era rinchiuso non avvenne perché graziato dal Pontefice Pio IX, su intervento del fratello di Filippo, il cardinale Giuseppe. Si vuole che la grazia sia stata perorata, direttamente al Pontefice, dalla moglie, Leopolda Galli, che per recarsi urgentemente a Roma abbia sfiancato, per la corsa, i cavalli della carrozza. L’esecuzione che doveva eseguirsi con estrema urgenza, così da rendere tardivi i tempi necessari per far giungere il dispaccio pontificale di grazia, fu superato dalla celerità di trasmissione tramite telegrafo.



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