L’arch. Angeletti Latini ci regala un gustoso saggio sulla cucina ceccanese, tutto da leggere e quasi da assaporare mentre la città si accinge tra venerdì e domenica. a vivere due feste, contemporanee, tra sagna e fagioli, abbacchio alla brace da una parte, alla festa del contadino a Santa Maria a fiume e pizza dall’altra a Piazzale Bachelet tra venerdì e domenica.
Qualche anno fa mi fu chiesto di scrivere una relazione sul fallone. Si trattava di una iniziativa finalizzata al riconoscimento di questo prodotto, ormai quasi completamente sconosciuto, al fine di tutelarlo e valorizzarlo con il riconoscimento, nella sua tipicità, tramite la denominazione comunale (De.Co.). Aderii volentieri estrapolando e adattando un brano preso dal più ampio “Ceccano Gastronomica”, contenuto nella seconda parte dell’Almanacco Perpetuo Ceccanese che con mia moglie, Paola Carlini, avevamo preparato per una prossima pubblicazione.
Ma come può immaginare chi leggerà questo contributo sia l’iniziativa sul fallone sia la stampa della seconda parte dell’Almanacco sono rimaste nel regno delle nebbie.
Mi sono deciso a riproporre la relazione stimolato da due manifestazioni, diciamo enogastronomiche, avvenute quest’anno a Ceccano. La prima, dal titolo in un latino sgrammaticato e dal significato incomprensibile, che proponeva anche qualche prodotto della tradizione “locale”. La seconda decisamente con pretese “internazionali”, con un titolo anglofono, che invece proponeva un campionario disparato di “cibo di strada” sparso nelle vie cittadine. Naturalmente avrebbe stonato la volgare e rustica stoccia (le due fette di pane con companatico) o il loncetto (italianizzazione del lunch) che ben conosce chi appartiene alla mia generazione.
Non vorrei essere frainteso ma intendo solo evidenziare l’importanza di conservare e tramandare le proprie tradizioni, anche gastronomiche, che rappresentano non solo l’identità di una comunità ma anche un attrattore, reale e non effimero, turistico.
CECCANO GASTRONOMICA
“Una golosa cucina rustica: i maccheruni (in effetti fettuccine tagliate finissime) alla ciociara, le fave col pecorino, gli gnocchi di patate, il pollo ruspante alla diavola, la polenta con sugo di salsiccia, il capretto o l’agnello arrostito “alla brace” (di pochi mesi ma non abbacchio, in quanto ha già brucato; è guazzetto in salsa stretta di pomodoro, peperoncino e odori…). Numerosi i dolci: il ciambellone, la ciambella scottolata, la ciambella all’olio (da inzuppare nel vino), la crostata, il pan di Spagna e, rituali, le frittelle di Natale e gli sbruffoli o castagnole di Carnevale”. Questa è “La cucina ceccanese” in Luigi Veronelli, Guida all’Italia piacevole 1968.
Questa descrizione, riportata poi da Sabatino Moscati nei Nuovi itinerari del Lazio, è di una cucina, quella appunto ceccanese, apostrofata come degna della terra di Bengodi.
Oltre agli maccaruni, pasta fatta in casa con uova e farina, e condita con sugu du ricaglie (di pollo), ci sono gli struzzapreti (maccheroni spessi fatti con sola farina e acqua) va ricordata la barzoffia. Un gustoso piatto questo composto da pollo con peperoni, patate, cipolle e pomodoro, avolo di quello romana che l’eccessivo pomodoro imbastardisce. E ancora la sagna cui fasoi (fagioli) e i fasoi cu lu cotucu (cotiche) di maiale, la pulenta cugli sugu du costatelle i zazzicchi, gli gnocchi conditi con un sugo insaporito da un battuto di lardo. I piatti delle feste: il cappone arrosto per la vigilia di S. Giovanni Battista e in tale periodo lu ciammòtte, lumache al sugo, le pizze fritte con l’uvetta a Natale e i classici gli struffoli a carnevale. Tra le zuppe la pasta e ceci seguita dal baccalà al sugo, con cipolle e patate.
Il pane, chiamato comunemente fallònu, detto anche tanchitto, nome di ignota etimologia, ha rappresentato l’alimento base, soppiantato nel dopoguerra, da quello di farina bianca.
Viene realizzato con farina di mais, cereale dalle diverse denominazioni: granturco, formento/ne, granone, grano d’India e grano siciliano, quest’ultimo per aferesi, detto cilianu

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Altro alimento per la minima sopravvivenza del periodo era “La Sciscella” ovvero la Carruba: