di Alessandro D’Avenia

Non ti disunire!» urla più volte il regista Antonio Capuano a Fabio Schisa, adolescente protagonista del film «La mano di Dio» di Paolo Sorrentino, candidato all’Oscar. Fabietto, così lo chiamano, intrattiene una chiacchierata notturna con l’artista a cui ha confidato di voler fare cinema, ma non capisce il reiterato comando e chiede spiegazioni. Sul far dell’alba, di fronte al mare, arriva la risposta: per raccontare bisogna essere onesti con il proprio dolore, la sola cosa che abbiamo da dire. La scena mi ha commosso e mi sono trovato ad analizzare la composizione spirituale delle mie lacrime.
Vi ho trovato il dramma che viviamo ogni giorno: la nostra dis-integrazione interiore e, sua diretta conseguenza, la dis-unioneesteriore. Siamo soggetti frantumati individualmente e socialmente, i cui pezzi (in-dividuo vuol dire ciò che non può essere più diviso) raramente riescono a unificarsi attorno a qualcosa che dia senso e gusto alla vita.
La testa, il cuore, il corpo lottano tra loro per avere la meglio e ciò che uno di loro ottiene non va bene per l’altro: amiamo persone che ci fanno del male, mangiamo o smettiamo di mangiare per un vuoto incolmabile, ci abbandoniamo a dipendenze consolanti ma distruttive, non capiamo il senso del dolore anche se ci assedia… La nostra vita è un campo di battaglia in cui siamo noi a fare la guerra a noi stessi, per poi riversare la nostra dis-integrazionesul mondo e sugli altri, rendendoli ora colpevoli ora vittime.
Tutto questo dimostra che noi, per essere felici, dobbiamo essere «uniti», in noi e con gli altri. Ma come fare? Come può essere proprio il dolore, che ci rende mancanti, fragili e incompleti a darci unità?
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