di Alessandro D’Avenia
Era un torrido pomeriggio di luglio del 1992 quando lo incontrai la prima volta. Avevo 15 anni e mi aggiravo per casa in cerca di qualcosa da fare. Neanche la televisione poteva lenire la mia noia, e così mi aggrappai a ciò che negli anni ‘90 era ancora un salva-gioia: i libri. Stavo percorrendo con lo sguardo il dorso dei volumi che avevamo in casa, quando in lettere d’oro su cartone blu vidi: «Delitto e castigo». Aprii la prima pagina, un’edizione ingiallita di inizio secolo e fittamente stampata che ho ancora, e lessi: «All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K». La coincidenza con il luglio torrido, la curiosità per il giovane (perché era indeciso?) e le iniziali per indicare luoghi da non svelare, mi portarono a sedermi – le parole avevano già avuto la meglio sul corpo – e a leggere di un ragazzo di nome Raskòl’nikov che si appresta a commettere un omicidio. In pochi istanti ero stato catapultato da un certo Dostoevskij, l’11 novembre ricorrono i 200 anni della sua nascita, in una trama sinistramente coinvolgente. Così inizia la mia storia con lui, come raccontavo qualche sera fa a degli amici che mi avevano invitato a cena proprio per parlare di Dostoevskij. Ma perché volevano rovinarsi la squisita cena a quel modo e perché proprio lui mi catturò a 15 anni (divoravo libri fantasy e fumetti, non certo mattoni russi)? Perché certi autori ci prendono per mano e ci accompagnano per tutta la vita?

Concidenza, forse, ma ho letto (anzi riletto) Delitto e castigo poche settimane fa.
Non è il mio genere, sinceramente, preferisco i contemporanei, soprattutto nordamericani, però ad avercene ancora di “mattoni” del genere.
O no?
🙂
Ciao, Piè!!!