di Simone Esposito
Stasera ho gridato, come una furia, come un pazzo, con Daniele che faceva finta di non sentire mentre gli dicevo di sedersi a tavola e continuava a giocare con le costruzioni sul divano. Si sono allineati tutti i pianeti più deprecabili: l’indisponenza di questo cinquenne che pare l’abbia studiata nei peggiori bar di Caracas, la mia stanchezza da recluso in smart working, un bicchiere rovesciato da Susanna, una sceneggiata identica fatta stamattina con la tazza del latte e risolta tra pianti e corse per non fare tardi e mai più papà ti giuro mai più. Passata l’esplosione, e ancora fumavo di rabbia, con la faccia impastata di lacrime e lenticchie e un cucchiaio fermo a mezz’aria in mano, Daniele mi ha chiesto di fare pace. È stato lì che mi è venuta una voce gelida e cupa, e gli ho detto: che facciamo pace a fare, tanto domani ti comporterai come oggi. Il cucchiaio si è abbassato fino a scendere nel piatto, e il pianto di Daniele, da frigrare che era, è diventato vero, pieno: non puoi saperlo, mi ha detto, e singhiozzava, se domani farò come oggi, non puoi saperlo.Se mi avesse dato una coltellata mi avrebbe fatto meno male, e stasera mi sarei meritato pure quella. Si fanno i conti fin da piccoli con i propri limiti, con i propri sbagli, con la propria miseria: ma se nemmeno tuo padre crede più alla possibilità che tu ti rialzi, che qualcosa cambi, che le tue ombre si rischiarino, allora non ha senso più niente, è finita sul serio. L’ho stretto provando a scusarmi e a calmarlo, e a calmarmi, col cuore spezzato entrambi. E ora mi viene da pensare che l’Avvento sia tutto qua: l’attesa certa di un Padre che crede ancora in noi, nonostante non cambiamo mai, nonostante tutto, e torna ogni volta ad abbracciarci. E a chiederci di abbracciare, noi per lui.

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