di Marco Carminati per Il Sole24ore
Il 2 giugno 1940 Mussolini scrive al Führer: «Il mio programma è il seguente: lunedì 10 giugno, dico 10 giugno, dichiarazione di guerra; e dal giorno 11 mattina, inizio ostilità». Il 4 ha detto ai ministri: «Questa è l’ultima nostra riunione in tempo di pace».
Sono passati ottant’anni dal quell’annunzio fatidico e tragico risuonato da balcone di Palazzo Venezia, e lo storico Emilio Gentile – che firma la copertina della Domenica – entra nel vivo della vicenda cercando di ricostruire, passo dopo passo, che cosa Mussolini stesso pensasse di quell’annuncio e che cosa di fatto di attendesse dagli eventi bellici da lui scatenati con lo storico discorso. Si trattò del discorso più difficile della sua trentennale avventura politica, nel momento supremo della sua vita.
«Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria». È la prima frase che gli viene in mente, e subito l’annota. Il destino! Lo ha sempre sottomesso alla sua volontà. E sempre ha vinto: contro il socialismo riformista, contro il neutralismo, contro il bolscevismo, contro l’antifascismo, contro l’Etiopia, contro la Società della nazioni. Ora contro Francia e Gran Bretagna: «Vinceremo!». Immaginiamo fossero questi i pensieri di Mussolini, il 7 giugno di ottanta anni fa, mentre nella sala del Mappamondo, a Palazzo Venezia, leggeva i rapporti sull’atteggiamento della popolazione verso la guerra. «Si fanno infinite congetture sull’andamento degli eventi», riferiva quel giorno un fiduciario da Milano: «In Borsa si era sparsa la voce che per autorevole intervento del Papa e di Roosevelt, dopo le ottime disposizioni di Francia e Inghilterra a renderci gran parte di quanto da noi richiesto, le cose sarebbero state fermate. Unanime è sentito il bisogno di pace e di lavoro e di ordine». Il duce si domandò se opinioni così idiote fossero del fiduciario o espressione di quel che pensava la gente. Tuttavia, nei mesi di “non belligeranza”, lui stesso era stato travagliato da dubbi. Soprattutto non si fidava dell’alleato, che già lo aveva ingannato: a sua insaputa, Hitler aveva fatto un accordo con Stalin. Peggio ancora: non aveva mantenuto l’impegno di attendere almeno due anni, prima di dar fuoco alle polveri, per consentire all’Italia di completare la preparazione militare. E poi, c’era un’incognita che impauriva: il Führer ammirava il duce, ma disprezzava gli italiani: quale sarebbe stata la sua reazione verso l’Italia, se tradiva l’alleato in guerra, come nel 1914? Non c’era alternativa: la guerra a fianco della Germania era inevitabile. Erano in gioco l’onore e il futuro dell’Italia. Per il duce, dunque il dilemma cruciale non era se entrare in guerra, ma quando. Hitler aveva già occupato la Norvegia e la Danimarca; all’inizio di maggio aveva invaso il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo, e marciava dritto su Parigi. La “guerra lampo” dissolse i dubbi: bisognava entrare in guerra prima della resa francese, per essere al fianco del Führer nel momento di decidere il futuro del continente. La guerra sarebbe finita in pochi mesi, con la vittoria dell’Asse. Dopo gli strepitosi successi tedeschi, anche il re, i gerarchi, i generali, prima contrari alla guerra, accettarono la decisione del duce, riconoscendo che poteva avere ragione, come nel 1935, quando dichiarò guerra all’Etiopia, e vinse. Il 10 giugno, alle ore 18, il duce apparve alla folla che rumoreggiava in piazza Venezia, immenso ondeggiante lago di teste umane. Dopo averla osservata per un attimo sorridendo, con sguardo severo impose il silenzio. E parlò: «Combattenti di terra, di mare e dell’aria…». Dalle prime parole, le italiane e gli italiani capirono che, per loro, la pace era finita.

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