di Alessandro D’Avenia

Due ragazzi si tengono per mano. Attraversano il ponte delle Catene che, primo ponte permanente sul Danubio, congiunge la città alta, Buda, a quella bassa, Pest. Le loro mani sono come quel ponte, si levano con fiducia ben fondata sulla corrente della vita e della storia, senza paura. Per questo si apostrofano con soprannomi, Mik e Fifi, come tutti coloro che vedono nell’altro un’eccezione cosmica e grammaticale. Hanno occhi ingenui, quelli di Mik un velo di malinconia in più, forse per la madre morta mentre lo partoriva. Lui è la grande promessa della poesia ungherese, lei, insegnante, è la poesia stessa, con un sorriso da bambina sempre posato su occhi di un purissimo azzurro, di cui Mik, diciassettenne, s’era innamorato nel 1926, quando lei ne aveva 14. Sposi dal 1935 passeggiano felici, la storia non può scalfirli, finché qualcuno non decide che per un ebreo la felicità è una colpa da espiare, e così prima impediscono a Miklós Radnóti di insegnare, poi lo mandano ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi, finché nel 1944 lo spediscono in un campo di concentramento al confine con la Russia. Il primo messaggio di Mik a Fanni Gyarmati dal campo dice: «Sei tu a dare un senso alla mia vita. Resterò in vita per te». Sono una sola carne, del dolore e dell’amore. Per essere riparati dagli orrori della storia non basta fare memoria solo di quegli orrori, ma anche della vittoria dell’amore su quegli orrori.
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