di Alessandro D’Avenia
Lo chiamano «blackout» : una corda al collo da stringere fino a sfiorare il soffocamento, per ottenere lo sballo provocato dall’ossigeno che torna di colpo al cervello. Un ragazzo di quattordici anni è morto così. Un altro è invece volato dal tetto di un centro commerciale, in cerca del selfie perfetto. Lui di anni ne aveva quindici. Sono alcuni dei recenti fatti di cronaca relativi a ragazzi che, per sentirsi vivi, vanno a caccia di emozioni esplosive, dinamiti di adrenalina scaturite dalla sollecitazione dell’istinto di sopravvivenza. Perché cercano la vita sfiorando la morte? Non conoscono un modo di sentirsi vivi a contatto con la vita? All’adrenalinica e incerta sopravvivenza si può sostituire la «sopra-vivenza» , cioè una vita che possiede ricchezza di senso e stabilità? Per rispondere è necessario rivalutare una parola mal-ridotta: «passione» . Mal-ridotta perché la «passione» , ridotta a «sensazione» o «emozione» , viene disattivata fino alla paralisi, come aveva già intuito Nietzsche più di un secolo fa: «Tutti vogliono le stesse cose. Una vogliuzza per il giorno e una per la notte: » Noi abbiamo inventato la felicità« – dicono e strizzano l’occhio. Ho conosciuto persone che hanno perduto la loro speranza più elevata. E da allora calunniano tutte le speranze elevate. Vivono sfrontatamente di brevi piaceri e non riescono più a porsi neanche mete effimere. Hanno spezzato le ali al loro spirito, che ora striscia per terra» .
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