Il 5 settembre 1938, Vittorio Emanuele III, re d’Italia, apponeva la sua firma alle leggi razziali, promulgandole. Quel gesto segnava il punto più basso della dignità di casa Savoia, che proprio 100 anni prima vantava le patenti di Carlo Alberto, re di Sardegna, che nel 1838 aveva concesso i diritti civili agli ebrei e ai valdesi. Alle leggi razziali di un secolo dopo si arrivò passo dopo passo, fino alla catastrofe della Shoah. Ecco come il Tirreno, con un articolo di Fabio Demi, ricorda i giorni di San Rossore.
Accuratamente preparata da una martellante campagna di stampa, nell’estate-autunno del 1938 il regime fascista inaugurò la sua sciagurata politica di persecuzione degli ebrei. Nell’alleata Germania, i provvedimenti antisemiti erano in vigore da anni e, per suggellare la vicinanza a Hitler, il duce aveva bisogno di colmare la lacuna. Bisognava che anche in Italia ci fossero delle norme per discriminare quella che ormai era stata bollata come “la razza ebraica”. Una razza nemica. Recitava lo strampalato “Manifesto degli scienziati razzisti”, pubblicato a metà luglio del ’38 sui giornali: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana… Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani». Il segnale era chiaro.
Scopri di più da Pietroalviti's Weblog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Lascia un commento