La mattina dopo l’elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti, i miei colleghi in università, riuniti in sala professori, mi chiesero un parere sulla faccenda, ma i loro occhi tradivano il fatto che, in realtà, quello di cui abbisognavano era una rassicurazione. Una collega, docente di letteratura italiana, me lo disse chiaramente: “tu che sei un esperto di politica, come te lo spieghi?”. La mia risposta fu laconica: “State chiedendo alla persona sbagliata”. A me era del tutto evidente che gli strumenti della scienza politica risultassero insufficienti a spiegare l’elezione di Trump. C’era e c’è bisogno di un armamentario più vasto, più raffinato, che prenda a prestito da altri campi del sapere e da altre discipline: la sociologia, l’economia, la psicologia, la comunicazione. Sia allo scopo di comprendere una realtà sempre più complessa che per agire su di essa.
Se avessi 20 o 30 anni, oggi, e avessi la stessa curiosità verso il mondo e la stessa voglia di lasciarlo un po’ migliore di come l’ho trovato, farei un altro lavoro; farei l’architetto delle informazioni, ovvero colui il quale immagina e costruisce i luoghi della nostra vita connessa.
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