di Marco Dotti
Gli uomini, scriveva Blaise Pascal, «non avendo potuto guarire dalla morte hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci più». Per quanto contraddittoria possa sembrare, la riflessione di Pascal appartiene ancora a una strategia di saggezza, quella medesima saggezza che nel Trecento, dinanzi all’avanzata della peste, permise a teologi e artisti di elaborare una consolatoria ars moriendi. Vita e morte erano compresenti, eppure distinte. La morte era il limite, la vita la forma. Incerta omnia, solo mors certa insegnava d’altronde Sant’Agostino, che in quella certezza circoscriveva il rischio della vita e la sua scommessa sul senso. Oggi le cose sono cambiate. Viviamo in quella che la sociologa canadese Céline Lafontaine ha chiamato società postmortale. La società postmortale comincia proprio là dove le frontiere tra la vita e la morte si confondono e si ingarbugliano e non solo gli uomini, pascalianamente, non ci pensano, ma un intero apparato tecno-nichilista assume per sé e su di sé una delega in bianco e opera per l’espulsione della limite – di ogni limite – e del suo portato sociale e simbolico dall’orizzonte di un’esistenza che, senso o non senso, procede oramai per proliferazione, più che per generazione.
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