di Claudia De Lillo
Tutto cominciò nella sala operativa di una società d’intermediazione mobiliare. «Faremo di te una trader», mi promisero con la stessa vibrante solennità dell’investitura di un cavaliere Jedi. In pratica, compravo e vendevo titoli azionari. Era la metà degli anni Novanta, epoca di contratti a tempo indeterminato e di borse euforiche. Erano tutti uomini, in quell’open space, dove adrenalina e testosterone producevano inauditi guadagni e un entusiasmo cameratesco. «Qui le donne portano sfortuna. Perciò, ti chiameremo Giovanni. Non ti dispiace, vero?», chiese il mio capo, con una grassa risata. Ero poco più che ventenne, il mondo riservava per me quotidiane sorprese e avevo un’incrollabile fiducia nelle meravigliose sorti e progressive dell’umanità. «La parità tra uomo e donna esiste fino a quando diventi madre», mi aveva detto, tempo prima, un’insegnante, saggia e dolente. Le avevo sorriso, per cortesia, senza crederle. Io, e anche Giovanni, eravamo onnipotenti. «Hai un fidanzato? Sappi che qui non durano. Lavoriamo troppe ore, con troppa intensità e troppa abnegazione perché rimanga spazio per altro. Sei stata avvisata, Giovanni».
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