di Alessandro D’Avenia
I santi hanno sempre risolto plasticamente un problema: saldare umano e divino. Imitatori di Cristo, perfetto Dio e perfetto uomo, riuscirono nella loro vita a ripresentare quell’equilibrio tra cielo e terra, tra spirito e corpo, tra mani e pensieri, che risolvono tutte le crisi umane. Così Francesco, otto secoli fa, inventava il presepe proprio per unire spirito e corpo e fare memoria viva del mistero dell’incarnazione. Dio era venuto in un recinto, presepe vuol dire ciò che ha dinnanzi (prae-) un recinto, siepe (-sepes): la mangiatoia. Dio viene nel Recinto del Mondo, confina il suo infinito ed eterno fino a sfinirlo, per concedere allo spazio e al tempo finiti di superarsi e trascendersi, dalle stelle alla stalla e ritorno. La teologia esistenziale di Francesco rendeva permeabile ai sensi dei suoi contemporanei ciò che dodici secoli prima Dio aveva reso permeabile, una volta per tutte, agli uomini di tutti i tempi, incarnandosi: facendo il presepe, Francesco ripeteva l’iniziativa di Dio, facendo risuonare in un piccolo spazio della sua terra quello che Dio aveva fatto venendo nel piccolo spazio della sua Terra.
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