di Elisa Chiari
Per una volta il mondo va a rovescio e l’italiano, che spesso lamenta un’eccessiva invasione di parole inutilmente straniere, colonizza le altre lingue e in particolare l’inglese. Accade quando le parole hanno a che fare con il cibo. Per parlare di questo La piazza delle lingue dell’Accademia della Crusca è uscita per la prima volta dal “Granducato di Toscana”, come dicono scherzosamente, per approdare, di qui al 3 ottobre, a Milano, al momento con l’Expo capitale mondiale del tema del cibo. E se ne sono sentite delle “buone”: «Per esempio che», ricorda Tullio De Mauro, «”Pizza” è la seconda parola italiana più diffusa, e importata, nelle lingue del mondo dopo “ciao” e prima, pare, di “tiramisù”». Ma in qualche parte del mondo c’è chi ha pensato bene di chiamare una forma di pane “pantofola”, facendo confusione con l’Italiana “ciabatta”. Fin qui nessuna rivelazione, che pizza e tiramisù fossero universali l’avevamo intuito anche noi comuni parlanti e modesti viaggiatori, meno intuitivo il fatto che le parole del cibo stiano vivendo in questi anni un boom di import-export, che gli addetti ai lavori, con sguardi diversi, concordano nell’osservare: «Un cronista del Guardian», sorride De Mauro, «recensendo l’ultima edizione dello Shorter Oxford dictionary ha scritto che, avendo quello come unico documento superstite della storia inglese, un archeologo del 3050 potrebbe ipotizzare che la storia inglese sia stata oggetto di due grandi invasioni: la prima da parte di Giulio Cesare nel I secolo a.C., la seconda negli anni Duemila d.C. da parte di un esercito di cuochi italiani».
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