di Alessandro D’Avenia
Eugenio Corti divenne scrittore durante la campagna in Russia: le sue lettere (curate da Alessandro Rivali, con sensibilità di poeta ispirato dalla storia) costituiscono un documento sulla vocazione di narratore e sul rapporto tra realtà e pagina scritta. Ogni creazione letteraria sgorga o dall’abitudine di parlare con se stessi o di parlare ad altri. Il conversare con i familiari lontani, per via epistolare, segna per Eugenio il battesimo alla scrittura: la parola lo àncora alla vita, vaglia ciò che conta in un uomo denudato dalla guerra, segna la necessità di ritornare, dopo anni, su quelle fonti di cronaca grezza per coglierne la profondità con lo scandaglio narrativo. La materia del canto confluirà prima ne I più non ritornano (Garzanti 1947), diario scarno dell’odissea di ghiaccio del 35° Corpo d’armata italiano sul Don e poi nell’epos de Il cavallo rosso (Ares 1983) – capolavoro colpevolmente trascurato – in cui si racconta di Michele (alter-ego dell’autore) e dei suoi compagni d’armata sul fronte russo, con prosa, che mescola l’epica georgica di Virgilio all’attenzione per il vero e per gli umili di Manzoni, tesa a scoprire se veramente “siamo piccole cose, noi uomini, nelle mani della Provvidenza” (I più non ritornano, p.116).
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