di Chiara Bertoglio
Una vetrina della libreria davanti a cui passo spesso è dedicata, in pianta stabile, a temi alimentari. Ci sono i libri di cucina, quasi tutti con il volto sorridente di qualche chef televisivo o dei conduttori dei programmi culinari, e c’è un ampio assortimento di libri su diete di tutti i tipi – alcune delle quali piuttosto spaventose. La nostra società ha un rapporto molto conflittuale con il cibo: spesso se ne è persa la dimensione conviviale, e l’idea che una buona pietanza sia una pietanza fatta con amore, per far piacere ai commensali con cui si ha un rapporto di affetto. Spesso mangiamo da soli, o con gli occhi puntati sullo schermo del nostro smartphone. E tante persone manifestano, come punte di un iceberg, quello che la società stessa vive: il rifiuto della vita, tramite il rifiuto del cibo; una malattia dell’anima, l’anoressia, che tradisce il desiderio di controllare ogni cosa e di non dipendere da nessuno.
In tutto ciò, paradossalmente, la parola “digiuno” sembra terribilmente anacronistica. Certamente, lo è il pensare al digiuno come all’assolvere un obbligo, al timbrare un cartellino, al “mettersi a posto la coscienza” facendo tutto ciò che bisogna fare. Ma non è di questo che abbiamo bisogno. Il digiuno che la quaresima ci richiama è più che altro un invito a scoprirci liberi. A renderci conto che non abbiamo il controllo della nostra vita, e che siamo in relazione con qualcuno.
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