Il coraggio della normalità


superuominidi Vincenzo Andraous

Qualche giorno fa c’è stato un incontro in una scuola, autorevole il relatore intervenuto, uno di quelli che per fare il proprio dovere di cittadino, di persona impegnata a rispettare il proprio territorio, etica e legalità, da molti anni è costretto a spostarsi sotto scorta, a vivere nello stretto, a pensare e agire con i polmoni in debito di ossigeno. Non è mai semplice raccontarsi per chi è obbligato a camminare nascosto agli occhi, costantemente all’erta, parossismo di una vita interamente sopravvissuta, nella consapevolezza di fare la cosa giusta, quella che non disprezza il valore della propria dignità.

Ci sono parole che si pronunciano per fare colpo, ma l’uomo seduto alla cattedra non ha simpatie per le ripetizioni ermetiche che fanno scalpore, traccia la propria storia, il vissuto per quello che è, senza bisogno di rivendere niente di quanto è stato, piuttosto è pratica quotidiana per arginare il malcostume, l’illegalità diffusa, che si espande a causa di un fertilizzante velenoso che sta a  indifferenza. Quest’uomo non è un eroe, o forse sì: quando definiamo una persona con questo sostantivo, il più delle volte lo facciamo perché qualcuno è morto con la sola colpa di avere dato il meglio di sé.

Non è il caso di chiedere a alcuno di fare l’eroe, invece è un dovere ascoltare quel che può accadere a essere semplicemente un cittadino onesto, che fa del proprio diritto-dovere di cittadinanza, una responsabilità ulteriore per se stesso e per quanti sono in ginocchio, peggio, alla finestra ad aspettare un treno che non arriverà mai.

L’ospite attraverso la sua testimonianza racconta il difficile cammino insieme alla propria famiglia, lo fa con gli occhi, con le mani, con il corpo, disegna il vivere nascosto, protetto, accompagnato dalle forze dell’ordine, un uomo consapevole dei propri diritti, dei propri doveri, dell’importanza di partecipare al bene comune, quello più oneroso in termini di coerenza individuale e rispetto della propria libertà, di quella altrui, quando questa è vessata, ingiustamente rapinata del suo valore inalienabile.

I ragazzi sbattono contro un  equilibrio esistenziale diventato improvvisamente precario, qualcuno afferma: “sarà anche giusto prendere posizione, ma lei è sotto scorta, con una libertà che somiglia più a una torsione, forse è meglio farsi gli affari propri”.

In questa affermazione, pronunciata per spirito di contraddizione, per una sorta di autoliberazione parossistica dettata dal timore di ritrovarsi nella stessa condizione di  prigionieri di un’apnea asfissiante, c’è urgenza di dipanare la matassa, di liberarsi da questi fenomeni tellurici sociali.

Ci fanno così paura da intenderli come una realtà sbagliata, ma tollerata, perché illegalità e violenza sono fiori dello stesso albero del male, tracimazioni di una crisi educativa istituzionale e famigliare, che appare irrimediabilmente compromessa, sempre più deprivata di un senso condiviso.

Ascoltare e riflettere sulle parole di quell’uomo “abbracciato” a una società inospitale, dentro il tentativo di incarnare uno stile di vita nuovo, che possa servire a essere finalmente cittadini che conoscono le proprie responsabilità, le cose come sono e come stanno, consapevoli di quanto il nostro comportarci comunichi più di mille parole.


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