O Roma o morte… fine di un altro mito?


Nicola Rosetti ci spiega la vera origine della famosissima espressione garibaldina.

 Il 20 luglio 1862, esattamente 150 anni fa, nella chiesa di Maria Vergine Immacolata a Marsala, Garibaldi coniò il celebre motto “O Roma, o morte”. La paternità di questa espressione però non è attribuibile allo stesso Garibaldi, come rivelano le “Memorie per la storia de’ nostri tempi” opera del prete-giornalista Giacomo Margotti (1823-1887). Il Margotti spiega che “O Roma o morte” era il titolo di un articolo apparso sull’Armonia, il  giornale del quale era direttore, già nel febbraio del 1850 e aveva un senso completamente opposto a quello datogli da Garibaldi. Infatti, mentre l’eroe dei due mondi aveva giurato e fatto giurare “o Roma o morte” per dire che gli italiani avrebbero dovuto togliere Roma al papa oppure morire, il suo giornale, al contrario, attribuiva all’espressione questo significato : “o Roma pontificale o lo sfasciamento dell’universo”.
La visione di Don Giacomo, che oggi a noi può sembrare cieca difesa di un anacronistico  potere, era la stessa di moltissimi cattolici del tempo, condivisa persino da un grande intellettuale come Dostoevskij che, dopo la conquista di Roma del 1870, dirà:  “Per che cosa possiamo congratularci con l’Italia? Che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla”.
Le parole dello scrittore russo interpretano bene i sentimenti del cattolicesimo ottocentesco: Roma era la capitale di uno dei più antichi stati europei, la sede dei Papi che nel corso dei secoli avevano favorito le arti, promosso le scienze e finanziato grandi opere di carità, ma soprattutto era la capitale di una religione universale, alla quale appartenevano più di 200 milioni di fedeli sparsi in tutto il mondo che guardavano ad essa come ad una grande autorità internazionale. Era unanime nei cattolici la sensazione che quel qualcosa di grande descritto da  Dostoevskij si stesse perdendo per sempre


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