di Alessandro D’Avenia

«Era di mattina molto presto, le strade pulite e deserte. Andavo alla stazione. Confrontando il mio orologio con quello di un campanile, vidi che già era molto più tardi di quanto avessi creduto, dovevo affrettarmi, l’ansia per quella scoperta mi fece incerto della strada, non conoscevo ancora bene quella città; per fortuna lì vicino c’era una guardia, corsi da lui e senza fiato gli domandai la strada. Egli sorrise e disse: “Da me vuoi sapere la via?”. “Sì”, dissi, “perché non riesco a trovarla da me”. “Rinuncia, rinuncia!”, disse e si girò bruscamente, come chi vuole essere solo con la propria risata». Avevo 17 anni quando Franz Kafka mi fece scoprire che la realtà è una metafora della grande narrativa e non viceversa. Il brevissimo racconto s’intitola Rinuncia e mi è tornato in mente leggendo, sulle pagine di questo giornale, la recente intervista a Umberto Galimberti che denuncia: «i ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo.
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