di Alessandro D’Avenia
C’è solo questo al centro dell’enorme sala. Una donna, immobile nel suo abito regale, ora rosso, ora bianco, ora nero, è seduta su una delle sedie. Gli occhi sono pozzi, incorniciati da un volto perlaceo e una cascata di capelli neri raccolti su un lato. Sull’altra sedia può prendere posto chi vuole, chi lo fa è chiamato a sostenere lo sguardo della donna. Così Marina Abramović, artista serba e americana, nel 2010 ha impegnato una sala del MoMA di New York per tre mesi, da marzo a maggio, in un rito. «The artist is present» è la sua opera d’arte più famosa e chiacchierata: ogni giorno, per sette ore, ferma a dialogare con chiunque volesse, in silenzio, solo con gli occhi. È compito dell’artista creare per lo spettatore una soglia tra materia e spirito, dare luogo alla rinascita della materia attraverso la forma. Per Abramović la materia sono lei e lo spettatore, la relazione di sguardi la forma nel suo accadere. Solo una donna poteva «concepire», in senso carnale, un’opera del genere. Le persone accorrono in file interminabili, con un numero per poter entrare nello spazio di verità in cui il «gesto» artistico diventa «gestazione»: la presenza dell’artista, corpo e sguardo, è atto generativo; lo spazio tra le sedie diventa un grembo in cui lo spettatore viene partorito. Le reazioni sono imprevedibili: paura, riso, pianto… ciò che ognuno riesce a trovare in sé nello spazio aperto da uno sguardo accogliente per la vita nuda. Abramović mostra in un gesto due momenti della femminilità oggi spesso in contraddizione. È erotica, nel senso che incarna un’apertura a una dimensione ulteriore: svela a chi la guarda il fatto di essere «mancante», portatore di un desiderio che nel quotidiano non trova mai risposta completa. Ma è anche materna: si prende cura della vita che riceve. Accoglie e spinge nella vita, dà luce e dà alla luce.

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