di Alessandro D’Avenia
E’ accaduto tutto in pochi secondi. Sembrano le scene di un film: un bambino di due anni, sfuggito alla madre, corre sulla banchina della metropolitana e scivola sui binari. Il display segna un minuto all’arrivo del treno, tutti sono paralizzati. Appare un ragazzo che, senza pensarci un attimo, getta via lo zaino, si lancia nel tunnel e mette in salvo il piccolo un istante prima del disastro. Era febbraio scorso quando un 18enne milanese fu ribattezzato: «l’Eroe della gialla». «Eroe» è infatti chi compie un gesto coraggioso e salvifico nella vita ordinaria. La parola, dal greco heros, significava semplicemente «uomo»: Omero la usava per ogni uomo libero la cui vita era al servizio della comunità, eroe è infatti nei suoi poemi sia il guerriero sia il poeta. Il termine si è quindi saldato a qualità come coraggio e generosità, passando così a indicare, in ogni cultura, il o la protagonista di una storia. Così accade anche nelle storie inventate negli anni ‘60 da Stan Lee, morto qualche giorno fa a 95 anni, papà di personaggi come: l’Uomo Ragno, i Fantastici Quattro, gli Avengers, Hulk, Iron Man… I suoi Supereroi incantano, non solo perché sono l’avanguardia dell’intrattenimento tra fumetto, cinema e videogiochi, o perché contengono la formula all’origine di ogni narrazione (sono, per l’appunto, eroi)… ma perché sono pieni di fragilità.

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