di Francesco Cancellato
Casa loro si chiama Tripoli, o Sebha, o col nome di uno dei trenta e rotti centri di detenzione presenti in Libia sulla rotta verso Misurata, quelli che l’Onu, giusto ieri, ha definito per bocca del suo alto rappresentante ai diritti umani «un oltraggio alla coscienza dell’umanità». Casa loro è un campo di concentramento in cui vengono torturati o venduti come schiavi per estorcere loro tutto il denaro possibile per pagarsi la liberazione, come ha testimoniato una recente testimonianza filmata della Cnn.
Casa loro è Sabrata, città costiera a 100 km da Tripoli, dove 14.500 migranti, tra cui donne incinte, neonati e bambini senza genitori, sono rimasti bloccati nelle mani dei trafficanti in fattorie, case e magazzini senza cibo, acqua, vestiti scarpe e servizi igienici. Casa loro sono i tremila chilometri che hanno fatto per arrivare lì, passando per il Niger e l’Algeria, spendendo tutto quel che avevano per ritrovarsi bloccati sull’altra sponda del Mediterraneo, da un accordo “disumano” – copyright Onu, di nuovo – tra la Libia e l’Unione Europea, per interposta Italia.
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