Venerdì 19 maggio, gli elettori della Repubblica islamica dell’Iran si recheranno a votare per scegliere il nuovo presidente. Un appuntamento elettorale importante in uno scenario complesso, le cui articolazioni sono difficili da intendere utilizzando le categorie politiche interpretative dell’Occidente. Sceglieranno tra candidati attentamente vagliati e successivamente approvati dal Consiglio dei guardiani che ha valutato la loro idoneità a ricoprire il ruolo. Delle 1636 candidature presentate – tra cui quelle di 137 donne – solo 6 hanno ricevuto il via libera del Consiglio, che ha fermato anche l’ex presidente Mahmud Ahmadinejad.
I sondaggi danno per favorito l’uscente Hassan Rohani, che nelle elezioni di giugno 2013 – complici anche le fratture all’interno del contrapposto fronte conservatore – si aggiudicò la vittoria al primo turno con il 50,9% dei consensi. Allora il candidato moderato, che aveva ricevuto il sostegno di due ex presidenti come ‛Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e Mohammad Khatami e beneficiato del ritiro della candidatura di Mohammad Reza Aref, era accompagnato da notevoli aspettative. Politico navigato e di lungo corso, Rohani era, infatti, visto come l’uomo giusto al momento giusto, la personalità più adatta sbloccare l’impasse sul nucleare grazie anche alla sua esperienza di capo negoziatore sulla questione nel periodo 2003-05, la figura capace di cambiare rotta rispetto agli otto anni di presidenza Aḩmadīnejād e di rompere l’isolamento internazionale in cui Teheran si trovava.
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