di Maurizio Patriciello, parroco nella terra dei fuochi
Fabo, innanzitutto grazie. Te lo dico perché credo che puoi sentirmi ancora. Grazie perché costringi tanti a riflettere su ciò che volentieri fingiamo di ignorare: la sofferenza umana, il suo peso, la sua grazia, il suo mistero. Come ogni essere umano, anche tu, fratello, sei unico, irripetibile, originale. Un altro Fabo non nascerà mai più. La vita è bella ma terribilmente fragile. Stupenda ma anche tanto faticosa. La battaglia per vivere la affrontiamo fin dal grembo materno. Siamo nati grazie alla misericordia dei nostri genitori ai quali mai smetteremo di dire grazie. È così. Chi crede può dire: Dio ha voluto così, avrebbe potuto fare diversamente, ma ha voluto così.
I limiti li affrontiamo fin dalla più tenera età. Anche oggi nella nostra bella Italia c’è gente che non ha pane da mangiare. E soffre. Ci sono bambini contesi tra un papà e una mamma che non si vogliono più bene, ma che loro sognano abbracciati, sotto lo stesso tetto. E si sentono dilaniati. Ciro, dodici anni, mi disse: «Mi sento un estraneo a casa di mia mamma che vive col suo compagno e il figlio che hanno avuto. Da mio padre è la stessa cosa. Io mi sento sempre a metà. Nessuna casa è casa mia…». Deve essere terribile sentirsi a metà. Fuori luogo dappertutto.
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