di Tamara Baris per treccani.it
«Fragori di folle impazienti», «ritmi frantumati» faticosamente ricordati, tempi liquidi che spengono il fuoco carnevalesco, un tempo purificatore; nessun povero Carnevale che fa testamento; nessuna recita che lo liberi in pubblico dalle malefatte e dai suoi vizi; nessuna confessione. Eppure, carnevale è morto, ma forse non lo ucciderà, facilmente, nessuno.
Sfogliavo un manuale l’altro giorno e leggevo questa annotazione napoletana, datata 1670: «le insolenze de’ plebei in questi tre ultimi giorni del carnevale non sono state ordinarie, nel menare cetrangole ed acqua da sopra gli astrachi e per le strade»; e, ancora, un’altra del 1675: «le pazzie della plebe sono state in eccesso in ogni quartiero, né sono state sufficienti le guardie di reprimerle, ma bensì per non venire a segno di perdere il rispetto, mitigare al possibile il furore licenzioso di tal sorte di gente».
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