di Manolo Farci
Andiamo subito al punto: se vogliamo capire davvero la vicenda di Tiziana Cantone, dovremmo mettere da parte questo sentimento divenuto oramai mantra costante della Rete: l’indignazione morale. Una volta Marshall McLuhan disse: “L’indignazione morale è la strategia adatta per rivestire di dignità un imbecille”. Mai parole furono più appropriate: indignarsi è il più facile degli stratagemmi retorici, quando non si ha poi molto da dire, ma lo si vuole dire con la voce più alta possibile. E in una logica da economia dell’attenzione quale è quella che guida i social network, basta gridare più forte per ottenere il numero più alto di like e commenti compiaciuti dalla propria cerchia di pubblici connessi.
Per cui – mi spiace – ma non trovo grande differenza tra le predicazioni morali che in queste ore hanno voluto interpretare forzatamente la vicenda di Tiziana, incanalarla nel proprio frame valoriale, con l’unico risultato di tracciare linee di confine tra giusto e sbagliato, individuare il barbaro contro cui scagliarsi. Ci sono quelli che hanno fatto passare Tiziana come una vittima – il nemico sceglietelo voi: la Rete, il cyberbullismo, il giornalismo di costume, i milioni di utenti che hanno riso, condiviso e contribuito a trasformare il suo video in un tormentone, la società patriarcale (quello non manca mai). Poi ci sono quelli che hanno tentato di raccontarla come un carnefice, avanzando senza pudore l’idea che Tiziana in fondo “se l’è cercata”, come se amare il sesso fosse qualcosa di riprovevole, come se voler giocare con gli immaginari della pornografia fosse qualcosa che ci colloca automaticamente lontani da una dimensione etica, talmente al di fuori da rendere legittima quella vergogna che sfocia nel suicidio. Tali posizioni si equivalgono, dal momento che l’indignazione non perde occasione di commentare ogni vicenda a partire dalla presunzione di essere titolari di chissà quale moralità.
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