di Alessandro D’Avenia“Ho da poco subito una metamorfosi, ma non per nuove penne e nuove ali: queste sono sparite e, al loro posto, spero ormai d’avere un paio di gambe per camminare pazientemente sulla terra” così scriveva in una lettera il poeta inglese John Keats l’11 luglio 1819. Si riferiva all’approfondirsi, nella sua vita interiore, dei motivi che dettavano versi nuovi al suo far poesia. Mancavano meno di due anni alla sua prematura morte per tubercolosi, ma la sua biografia spirituale bruciava le tappe come accade a tutti coloro che sanno di aver poco tempo per dare frutto. Affermava che, dopo il fare bene, la cosa più importante era far poesia e lo diceva perché questo era la sua maturità, fecondità di vita e, in ultima istanza, felicità (felix era per i latini l’albero che dà frutto, quindi fecondo e felice sono la stessa cosa).
La carenza di felicità di molti contemporanei, e i giovani in particolare (in Occidente aumenta il numero di ragazzi che hanno provato il suicidio entro i 21 anni o che tributano la loro devozione alle divinità della Dipendenza o del Disagio), dipende dalla carenza di fecondità delle vite, cioè dalla carenza di frutti e i frutti richiedono chiarezza di destino che si fa destinazione nella pazienza delle stagioni.
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